È la stampa britannica, bellezza! (cit.) È obbligatorio citare, parafrasandolo, Humphrey Bogart in “Deadline”, film del 1952 (in Italia “L’ultima minaccia”), a proposito della filippica pubblicata si Instagram da Melissa Satta dopo che il “tabloid” inglese “Daily Mail” l’ha definita – dando la notizia della rottura con il tennista Matteo Berrettini – “sex addict”. Noi di MOW siamo stati (suppongo) tra i primi, se non i primi se non gli unici a dare la notizia, difendendo – ovviamente – la Satta dai vil giornalisti della “perfida Albione” (da “Das Perfide Albion”, frase stampata in un manifesto propagandistico, durante la prima guerra mondiale, dai tedeschi contro la politica estera inglese). L’abbiamo difesa a spada sguainata per una serie di motivi. Innanzitutto – spiegavamo - il Daily Mail, pur essendo il sito online più letto al mondo, è stato definito da “NewsGuard”, un sito che monitora l’informazione sul web, affidabile riguardo alle notizie che però “non riesce ancora a presentare in maniera responsabile”; proprio questa mancanza di reponsabilità – come vedremo più avanti – ha fatto sì che nel mondo anglosassone fiorissero i cosiddetti “tabloid”, la stampa cosiddetta “scandalistica”, che sono anche i giornali più letti; una sorta di condominio delle celebrità in cui se ne dicono di ogni.
Continuavamo a difendere la Satta, chiedendoci se la frase pronunciata dalla Satta – e ripresa dal Daily Mail - a proposito dell’ex marito Kevin-Prince Boateng: “Faccio sesso con lui dalle sette alle dieci volte a settimana” (che, per inciso, non essendo una notizia che in qualche modo può cambiare la vita di qualcuno, sembra una dichiarazione fatta apposta per finire sulle pagine di uno dei suddetti tabloid – poi certo, non tocca a noi giudicare l’urgenza, la necessità, l’ineluttabilità diremmo, di una tale informazione) bastasse a definirla "sessodipendente", e a chi spettasse il compito di attribuire a qualcuno quella che è una patologia (di certo non ai giornalisti). Poi abbiamo elencato una serie di “celebrities” che hanno confessato la loro sessodipendenza – confessioni spesso in odore di “scusa” e avvenute dopo scoperte di tradimenti o diffusione di video intimi, con conseguente ritiro in centro di riabilitazione (come si dice tra le celebrities “rehab”. Infine sfottevamo un po’ i giornalisti inglesi chiedendoci se non passassero troppo tempo al pub, perché, fose perché siamo italiani (do it better), dalle sette alle dieci volte a settimana non ci sembra una cifra allarmante (anzi, al bar della stazione di servizio di Rosolini, un paese siciliano, sembravano pochine e si chiedeva se gli inglesi non avessero il Viagra). Adesso, dopo il lungo monologo social di Melissa Satta, in cui annuncia che passerà alle querele, bisogna dire che con la stampa britannica può ben poco. Innanzitutto il reato di diffamazione non esiste in Inghilterra, Galles e Irlanda del Nord (ai britannici non resta che sperare di essere diffamati in Scozia) dal 2009. L’UK’s Defamation Act, del 2013, poi ha definito alcune linee guida, molto libertarie: per difendersi dall’accusa di avere diffamato qualcuno basta, ai giornalisti inglesi, 1) Dimostrare che la frase che si ritiene diffamatoria sia sostanzialmente vera (non ci pare, in questo caso, a meno che gli inglesi non convochino come perito un sessuologo inglese fedele al detto di Lord Chesterfield: “Il sesso? La posizione è ridicola, il piacere passeggero, la spesa eccessiva”); 2) Che si tratta di una opinione (e su questo sembra dura vedersela con gli inglesi, se a loro sembrano troppe che ci si può fare, sono fatti così, Lord Chesterfield docet); 3) Che la pubblicazione fosse di pubblico interesse (e qui sbrigatevela voi, la Satta l’affermazione di quante volte fa sesso l’ha fatta, onde ragion per cui parrebbe che a lei per prima sembrasse di pubblico interesse). Dice: non è un diffamazione ma è una ingiuria. Ok.
C’è da aggiungere ancora una cosa: non solo l’insulto, o ingiuria che dir si voglia, in Inghilterra è depenalizzato, ma una sentenza che ha fatto scuola (e portato ulteriore fortuna in termini di vendita ai tabloid) ha sancito persino un “diritto di offendere”. I giudici della corte di appello Lord Bean e Lord Warby hanno difatti assolto una donna, Kate Scottow, giudicata in primo grado colpevole per avere chiamato un transgender “a pig in a wig”, un maiale in parrucca, e definendolo “uomo”. La notizia è stata riportata dal Daily Mail stesso con un titolo che – faccenda della Satta a parte, ma proprio a parte, è bene specificarlo – in Italia, forse, dovrebbe essere stampata sulle magliette: “Woke folk, beware!”. La motivazione dei giudici, a favore della libertà di parola, sembra di una logica ineccepibile: “Non vale la pena di avere libertà di parola se essa è usata soltanto in modo inoffensivo”. Ancora faccenda della Satta a parte, questa sentenza sembra andare anche a favore di una certa cultura woke che non lesina offese e insulti a partire da un presunto vittimismo. Tornando a Melissa Satta, noi di MOW, continuiamo a essere dalla sua parte, e la definizione di “sex addict” da parte del sito online più letto al mondo ci sembra decisamente ingiusto. Ma è la stampa britannica, bellezza! (“Bellezza” si può dire? Non l’ho detto io, l’ha detto Humphrey Bogart!).