Non è il primo e non sarà l’ultimo, Stefano Gheller, a togliersi la vita in modo perfettamente legale nel nostro Paese. Il 49enne di Cassola (Vicenza) la settimana scorsa ha ottenuto il via libera dall’Usl locale per accedere al suicidio assistito. Prima di lui, Federico “Mario” Carboni e Fabio Ridolfi, entrambi marchigiani, morti nel giugno di quest’anno, erano riusciti a superare le resistenze della Regione d’appartenenza avvalendosi della sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale che consente ai malati con patologie irreversibili di richiedere l’aiuto medico per interrompere sofferenze divenute intollerabili. Gheller, affetto dalla nascita da una forma di distrofia muscolare che l’ha costretto sulla carrozzina dall’età di 15 anni, attaccato ventiquattr’ore su ventiquattro a una respiratore, con gravi problemi di deglutizione, si è visto invece arrivare un sì “tempestivo ed esemplare” (Diego Silvestri, Associazione “Luca Coscioni”) in Veneto. Regioni diverse, stesso colore di centrodestra, ma approcci opposti. L’esito, tuttavia, segue una via ormai tracciata: il diritto alla morte liberamente scelta.
Il caso Gheller è significativo per due motivi. Il primo è più profondo, di ordine giuridico e filosofico. Il secondo è contingente, politico, ma non meno importante. Per quanto concerne il primo, dobbiamo riavvolgere il nastro a tre anni fa. Nel 2019 i giudici della Corte Costituzionale hanno fissato un principio dirompente nell’ambito del cosiddetto “fine vita” - cioè, per dirla in italiano, della morte: con la sentenza 242 hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 580 del codice penale che punisce chi assiste e istiga al suicidio là dove un individuo che abbia intenzione di suicidarsi sia in grado di intendere e di volere, sia tenuto in vita artificialmente, soffra di una malattia senza scampo e viva in una condizione di dolore insostenibile, a patto che la sua situazione sia verificata dal sistema sanitario e previo parere di una commissione etica. In parole povere, l’Italia è la prima nazione al mondo con dimensioni e peso di rilievo (superiori alla Svizzera, per capirci, dove si reca chi può permettersi 10 mila euro di iniezione letale) che ha sancito l’ammissibilità di porre fine all’esistenza individuale quando questa diventi, come l’ha definita il professor Maurizio Mori del Comitato Nazionale Bioetica, una condizione infernale, in cui cioè la vita risulti, al suo unico titolare ovvero chi dovesse patirla come una condanna, peggiore della morte stessa.
Questa novità di portata storica è rimasta praticamente sottaciuta. Sui media se ne parlò per un giorno o due. La Conferenza Episcopale Italiana restò muta. Papa Francesco se ne occupò una settimana dopo, estemporaneamente, quasi di striscio, in un incontro sul giudice vittima di mafia Rosario Livatino, deprecando stizzito l’invenzione di un “diritto di morire privo di qualsiasi fondamento giuridico”, ma niente di più. In effetti, benché nel frattempo siano emerse altre storie simili, sembra sia calata scientificamente una coltre di silenzio che, in un’Italia che in questo genere di dibattiti è molto influenzata dalla linea della Chiesa, è presumibile ascrivere a una strategia della bassa tensione piuttosto comprensibile: meno lo si affronta, il problema della “libera morte”, meno è percepita quella che innegabilmente è una sconfitta per chi preferirebbe negarlo e rimuoverlo.
Tuttavia il problema resta. E, per venire al secondo motivo, che esso venga risolto per così dire dal basso, col beneplacito di una magistratura obbligata a supplire, dato che un’apposita normativa in materia non esiste, dà la misura di quanto la politica, ancora una volta, si confermi insensibile alla vita reale, con i suoi drammi e i suoi dilemmi. Gheller ha già avuto modo di raccontare che, dopo la richiesta, avendo ben pensato di contattare i relatori della passata legislatura sulla futuribile legge riguardo il fine vita (Alessandra Maiorino del Movimento 5 Stelle, Caterina Biti del Pd, Maria Rizzotti di Forza Italia e Simone Pillon della Lega), nessuno di loro si premurò di rispondergli. Come ha precisato più volte, la sua non è una battaglia esclusivamente personale, ma vuol essere a beneficio di tutti coloro che si possano trovare nella sua situazione. Una battaglia politica, dunque. L’elemento curioso sta nel fatto, prendendo sempre lui ad esempio, che Gheller ha pubblicamente detto di aver votato Giorgia Meloni (Il Mattino di Padova, 15 ottobre 2022), notoriamente su posizioni contrarissime alla “dolce morte”. Non solo, ma uno dei suoi prossimi obbiettivi è chiedere un incontro con la nuova capo del governo, per mostrarle come vive e quali sono le necessità di chi, come lui, ha bisogno di aiuti economici per pagarsi una badante (che può costare anche 5 mila euro al mese). Senza usare toni polemici, ma con la calma di chi sa che nulla ha più da perdere, fuorchè la dignità da estendere, se possibile, a chi in avvenire soffrirà come lui. A partire da sua sorella, pure lei colpita dallo stesso male genetico.
“L’uomo è stato, per millenni, il padrone assoluto della sua morte e delle circostanze della sua morte, oggi non lo è più” (Philippe Ariès, “Storia della morte in Occidente”). Stefano Gheller, con la laicità di pensiero di un cittadino che dice tranquillamente come la vede e chi ha prescelto alle urne, ci dà una lezione di vita. Proprio così: di vita. Come prima di lui Carboni e Ridolfi, come ancora adesso il tetraplegico “Antonio”, altro marchigiano che deve decidere quando autosomministrarsi il farmaco letale, Gheller ha riaffermato il diritto di vivere fintantoché il vivere non si riduca a vegetare, dipendente senza fine da macchine e trattamenti, in balìa del denaro che manca, sino allo stremo delle forze. Grazie, Stefano. E chissà che Giorgia, “donna, madre e cristiana”, trovi il tempo e la voglia di ascoltarti. Magari per prendere atto della realtà, una realtà che in tutte le epoche e a tutte le latitudini, non c’è Stato né sistema economico che tenga, mette la singola persona da sola di fronte al proprio destino.