Yuriy Kerpatenko era il direttore della Filarmonica di Kherson. Il Ministero della cultura ucraino, su Facebook, dà la notizia della sua morte. È stato ucciso dalle forze militari russe a casa sua, a colpi d’arma da fuoco. Una vera e propria esecuzione. Il maestro d’orchestra si sarebbe infatti rifiutato di collaborare con gli occupanti, non volendo esibirsi in un concerto occupato dai russi. I parenti di Kerpatenko non avevano sue notizie da settembre ormai. La morte del direttore d’orchestra è solo l’apice, il simbolo la cui forza è più dirompente, di ciò che la dissidenza vuole essere. È dissidenza rifiutarsi, in qualunque luogo, di prostituire la propria arte, fino a pagare le proprie scelte con la vita. Esistono varie forme di dissenso. Henry David Thoureau nel 1849 si domandava (in Civil Disobedience): «Il cittadino deve mai, per un momento o in minima parte, rassegnare la propria coscienza al legislatore? Perché allora ogni uomo ha una coscienza? Penso che dovremmo essere prima uomini e poi sudditi».
Purtroppo il mondo è ben più complesso di come lo guardava il boschivo autore americano, che passò parte della sua vita in una capanna vicino al lago Walden (Massachusetts). La dissidenza può assumere anche l’ombra del paradosso. Così, la dissidenza dei primi cattolici, i martiri, viveva la grande contraddizione di essere espressione di una fede matrice di potere, per esempio all’interno dell’esercito romano dell’epoca di Costantino (che per questo, e solo per questo, iniziò a tollerare la nuova religione) e non solo. Il gesto estremo di Kerpatenko, rinunciare alla vita, ha significato porsi in contrapposizione a un potere fagocitante e imperialista, come quello russo, pur nell’incoscienza verso il potere altrettanto ingordo dell’Occidente che sostiene la guerra per interessi personali dei governi. Certo è che il singolo individuo rimane puro, se difende autonomamente le proprie idee, anche quelle più sbagliate. Così Kerpatenko rimane un eroe, morto forse per la sua Patria, forse per il suo orgoglio, forse per un’ideale antiautoritario, rappresentato nella sua visione del mondo dalla resistenza ai russi. Poco importa quali fossero i valori e le premesse di questo gesto, è il gesto, la fine nella bocca dei leoni, che rende Kerpatenko un esempio di dissidenza.
C’è un ma. Il cordoglio e l’indignazione verso questa morte, in Italia, nasconde un’onta, quella di aver caldeggiato l’epurazione dalla vita culturale di un maestro d’orchestra filorusso, che non ha scelto di piegarsi al diktat impostogli dal governo. Si tratta di Valery Gergiev, amico di Putin, che ha resistito alla volgarità del maccartismo europeo e americano. Sì, perché dissidenza, come si è detto, non è opporsi per una giusta causa, bensì per la propria. Il teatro della Scala ha scelto di fare a meno di Gergiev, dopo che gli venne richiesto, a febbraio, di condannare l’invasione russa in Ucraina. Moltissimi suoi concerti sono stati annullati, tra cui una tournée di tre date alla Carnegie Hall (Stati Uniti) con la Wiener Philharmoniker. Qualche giorno fa, infine, Gergiev è stato espulso dalla Royal Swedish Academy of Music. Egli non ha fatto altro che rifiutarsi di piegare la propria professione alla volontà della politica locale, di volta in volta orientata a voler far dipendere un rapporto di lavoro dalle idee o dalle relazioni personali di una delle parti del contratto.
Essere licenziati non è come essere uccisi, forse, ma da tutto questo emerge un doppiopesismo irrefutabile. Nessuno si indigna perché Kerpatenko è stato ucciso, ma perché a ucciderlo sono stati i russi. La dissidenza è sana ogni qual volta arrivi sotto alle mura dei nostri nemici. Mai quando è in casa nostra. Abbiamo augurato il carcere ad anarchici e comunisti che nel corso degli ultimi decenni hanno dissentito, e oggi ci mascheriamo dicendo che uccidere e incarcerare o mettere al bando sono cose diverse. Dunque la morte, questo spettro biologico e politico che ci sgomenta, non è altro che un modo di sentirsi meno colpevoli rispetto a quei regimi ideologicamente primitivi, che usano la violenza in modo talmente diretto e lampante da essere sempre e inequivocabilmente nel torto. Mentre noi ci beiamo di essere avanzati, preferendo incarcerare e torturare eroi come Julian Assange, o lasciando che eroi come Snowden siano costretti a restare in Russia (sì, proprio in quel regime che non augureremmo al nostro peggior nemico), perché senza possibilità di scappare in altri Paesi. Ed è lo stesso motivo per cui un nazista come Navalny diventa un simbolo dell’antiautoritarismo, mentre i filo-occidentali criticano l’elezione di La Russa a una carica simbolica. Se i fascisti combattono i nostri nemici, allora va bene. Sappiamo usare il nostro disprezzo con scarsa perizia, vittime di un automatismo ideologico e somaro, che ci fa vedere sempre il marcio dove ci conviene, e mai dove il marcio è. Kerpatenko è un eroe perché ha dato la vita per opporsi al regime cui si rifiutava di sottomettersi. Ma, allo stesso modo, Gergiev è un dissidente che si è difeso dalla stupidità politica (in pieno stile Guerra Fredda) dell’Occidente. E siamo degli ipocriti se esaltiamo la diserzione e la disobbedienza solo quando è verso i nostri nemici, e non ogni qualvolta il potere pretenda dall’individuo qualcosa che ne umilia l’integrità umana.