L’opposizione al governo Meloni non esiste? Ce n’è anche troppa, invece. Finta, edulcorata, timbrata con il cartellino. A volte in buona fede, altre per dovere d’ufficio, più spesso per autoriprodursi e stare a galla, accaparrandosi il posto al sole, l’invito in televisione, la quota nei cda freschi di nomina. E in questa fase, tenendo caldi e frizionati gli elettori-bovi quel tanto che basta per assicurare il collocamento a Strasburgo della propria truppa di scarto, quando si voterà alle europee l’anno prossimo. Lo dichiariamo subito: l’unica via per mandare in crisi la Meloni, Salvini, Tajani e accoliti vari, è che la crisi se la facciano da soli. Gli smarcamenti e le scaramucce fra loro - di cui abbiamo già avuto un antipastino con la Lega che sui migranti ha accusato la Germania di imperialismo “nazista” (offesa suprema, per un tedesco) – non devono ingannare: fa parte della logica obbligata di una campagna elettorale già cominciata, il cui sistema di voto proporzionale e la possibilità di preferenza a questo o quel candidato massimizzano il bisogno di ciascun partito di condurne una tutta propria. Distinguendosi anche, e soprattutto, dagli alleati.
I ruoli sono assegnati. Fratelli d’Italia, forza egemone, deve apparire la più “responsabile”, infondere sicurezza al suo target forse (forse, eh) deluso dal colabrodo migratorio, dalla benzina a quasi 2 euro, dall’inflazione che non smette di crescere, e pure da Pino Insegno che fa flop su Rai Uno. La Lega, che ha già vissuto tracolli verticali risorgendone più forte che pria, ha tutto l’interesse a fare da guastatrice, occupando lo spazio a destra della destra meloniana, solleticando, per capirci, gli istinti primordiali alla Vannacci. Forza Italia, vedova inconsolabile del viagra Berlusconi, si gioca la sopravvivenza, e non può che farlo guadando la palude al centro dove stazionano i Renzi e i Calenda, ma con difficoltà enormi, perché c’è già la premier a presidiare l’area 51 della moderazione, del buonsenso istituzionale, del filo-americanismo ortodosso, del razzismo sociale verso i disoccupati (pardon, “occupabili”). Quanto a Maurizio Lupi e al suo partitino microfallico, scuserà il lettore ma non sapremmo neanche come definirne il senso all’onor del mondo, senonché Vittorio Sgarbi gli si era associato con la sua sigla “Rinascimento”, ed è già meglio di niente.
Ma dicevamo dell’opposizione. C’è, ma è come se non ci fosse. Quella che si fa sentire di più, nel senso di decibel, è fuori dal parlamento. La Cgil, l’Arci e qualche altra dozzina di movimenti e associazioni suonano l’adunata per una manifestazione che farebbe sperare in un ritorno di sana tensione dialettica. Peccato che la piazza, in sé luogo sacro della democrazia originaria, da sola non sposti di un millimetro gli equilibri di potere. Bisognerebbe almeno imitare il sindacato Cgt francese, che anziché limitarsi a una giornata di protesta, paga a oltranza gli stipendi mancati di quei lavoratori che scioperano all’infinito, decisi a tutto per tenere accesa la luce della rivolta (con esiti ugualmente nulli, visto che la democrazia ufficiale è oggi oligarchia e Macron se ne frega bellamente, ma così, quanto meno, si crea una sacca di resistenza, non ci si riduce ai tuoni verbali). I Fridays for Futures pare stiano per tornare anche loro nelle strade, e a naso scommetteremmo in altre schizzate di vernice e blocchi del traffico da parte degli eco-ansiosi di Ultima Generazione. Tutta roba, diceva Jannacci a proposito dei preliminari con le pischelle, senza risultato. Azioni dimostrative, intenti nobili, metodi discutibili, ma politicamente opere poco più che simboliche, ovvero a impatto zero sui processi decisionali. Dal canto suo Michele Santoro prova a dar vita a una lista pacifista, incentrata sulla contrarietà degli italiani, effettivamente maggioritaria, al nostro impegno in appoggio al petulante Zelenskji. Ma si sa come finiscono le aspirazioni arcobaleno: vampate più o meno grandi sui media, cifre desolanti nel segreto dell’urna. Mettiamola così: per un oppositore extraparlamentare non resta che la virtù della Speranza. Chi vive sperando, però, muore espletando, per citare l’immortale Abbatantuono. Non resta che la ridotta culturale, la controinformazione.
Scendendo di girone dantesco, giungiamo al Partito Democratico e al Movimento 5 Stelle. Elly Schlein non è più un mistero da svelare: la sua inconsistenza si è svelata in tutta la sua armocromia. Al netto dell’oggettivo e permanente inciampo di dover gestire un partito che non è schleiniano (l’ex ministro Dario Franceschini, detto “ora et manovra”, dopo averla appoggiata ora sta preparando il piano B in caso di figuraccia alle europee: ah, la meravigliosa perfidia dei democristiani), la segretaria del Pd tenterà di uscire dall’anonimato in tre mosse: il firma day sul salario minimo; un’altra manifestazione, l’11 novembre, sullo scempio della sanità; e una non meglio identificata conferenza a dicembre sulle europee. Sono tutte iniziative a costo zero, che servono a resuscitare il sentimento vitale di un popolo piddino che va galvanizzato per uscire dal torpore. Nel merito, il salario a 9 euro è già stato segato perfino da Romano Prodi, sottolineando che si tratta di soli 6 euro netti (un Prodi che ci risultava essere il “grande vecchio” dietro la Schlein, pensa tu se le fosse ostile). L’“autunno di lotta” sui diritti civili e sociali, comprensivo di un nuovo “piano casa” e di qualche politica industriale by Bonaccini, è certo pur sempre meglio dell’affannoso politichese schleiniano, ma se poi, alla conferenzona sull’Europa, udiremo la retorica sulle “nuove generazioni di europei”, e se nel Pd c’è chi non si sogna nemmeno di ripudiare porcherie di destra come il renziano Jobs Act, siamo ancora all’aria fritta nel ventilatore.
Se la Schlein si rivelerà un fuoco di paglia, molto dipenderà da quanto riuscirà a salire nei consensi Giuseppe Conte. Il M5S è dato in media nei sondaggi a un 15-16%. Mancano ancora sette-otto mesi al voto, e il suo attuale posizionamento fa per ora arguire che voglia recuperare il proprio bacino tradizionale, che non è tanto, o non solo, di ex sinistra, ma quello trasversale, indistintamente rabbioso verso tutto e tutti, non certo riducibile al “campo largo”. Di qui, per dirne una, il no netto allo jus soli, articolo di fede per gli orfani di Murgia votanti alle primarie Pd. Di qui, anche, la disinvoltura nel giocare di sponda e di rimpallo con il centrodestra nelle nomine Rai, costosissima cartina di tornasole dei rapporti di forza romani. Conte è il Salvini sul versante sinistro: come il Capitano, partendo da una posizione elettoralmente più debole, può e deve permettersi la spregiudicatezza. Facilitato dal fatto che, continuando a soffrire i 5 Stelle di una gracile costituzione interna, può fare e disfare da padrone assoluto (rectius: semi-assoluto, a Beppe Grillo restano le ultime vestigia da “garante” finale in dogmi non secondari, come il doppio mandato). La sfida grillina è interamente contro il Pd, non contro la maggioranza, che perciò, ancora una volta, non ha nulla da temere neppure da Conte.
E allora? Questo governo va avanti a colpi di decreti legge (41, no dico, 41 in un anno, di cui due terzi votati con il voto di fiducia). Per i non tecnici, significa che bypassa il parlamento e rincorre l’effetto-annuncio immediato, insomma fa più propaganda che altro, del resto dané ghe n’è minga, come dicono a Milano, e fare la faccia decisionista e feroce paga di più, in campagna elettorale (salvo poi farsi smentire da un giudice qualunque sul decreto immigrazione, ma poco male: ci si fa sopra un altro pezzo di campagna elettorale, e via andare). Giorgia Meloni primo ministro, per lo meno nel panorama sotto i nostri occhi, rappresenta la possibilità ultima per coloro che hanno visto e testato tutti, dal centrosinistra a Berlusconi, dal duo Salvini-Conte agli inciuci alla Monti o Amato, per un governo “diverso” da ogni precedente alchimia. La Meloni ha vinto perché era l’unica che non si era aggiunta all’ammucchiata Draghi, perché aveva conservato una sua, diciamo, purezza. Se fallisse anche lei, cioè se cadesse prima dei cinque anni di legislatura, o se dalle prossime politiche non ne uscisse confermata, non resterebbe nessuna opzione prevedibile a cui aggrapparsi. Sarebbe il caos (e ben venga il caos, se il resto non ha funzionato).
Manca un’era geologica al 2026, è vero. Ma quattro anni non sono dieci, il tempo che ci ha messo lei per passare dal 2% al 26%. E allora, dicevamo, stringa ancora di più le ganasce, s’imponga come solo una nipotina di Almirante sa fare, sfregi la Costituzione, ci dia dentro in decretazione come ai tempi della Buonanima, tanto basta fare gli inchini dovuti a Washington e non irritare i divini mercati, e si può anche mortificare il sale della democrazia, che sarebbe l’opposizione, sociale o politica n’importe rien. Anche perché l’opposizione ci pensa da sola, ad esautorarsi coltivando il proprio orticello, e trangugia tutto quel che c’è da trangugiare perché il potere, nel palazzo, non ha colore, corrompe per sua natura, e ci vorrebbe una dittatura vera, per far capire il costo umano che stiamo tutti pagando, anziché perdersi nelle distrazioni woke di massa, o farsi bastare l’indignazione a giornata. Giorgia, ascoltaci: oltre che madre, cristiana e compagna di Giambruno, fa’ anche la fascista. Di’ qualcosa di fascio. Ma di fascio vero. E fallo, anche. Uno stupendo incubo ci assale: il prossimo gennaio 3 gennaio, attorniata dai manipoli in bivacco, come qualcun altro nel 1925 si assuma lei, sola, “la responsabilità politica, morale, storica” di tutto quanto sarà avvenuto e avverrà. Sia mai che una reazione vera si generi, che la pantomima dell’alternanza si sgretoli, che ci vacciniamo da ogni illusione, compresa quella che spaccia una compìta e timorosa Meloni come pericolo per la democrazia. Democrazia? Ma dove, ma quando?