Piove, governo tecnico. Tutti ne stanno parlando in questi giorni: davvero qualche innominabile potentato prevede di togliere il terreno sotto i piedi al governo Meloni per sostituire “io sono Giorgia” con un premier pescato, magari, dall’accademia o dall’alta finanza per risolvere l’attuale congiuntura problematica in campo economico? Nessuno chiede il governo tecnico, ma tanti lo evocano. Un sondaggio di MOW tra operatori dell’industria e finanza lombarda mostra un sentiment generale chiaro: nei poteri economici non c’è voglia di alchimie tecniche, ma c’è indubbiamente apprensione per la congiuntura complicata. Tutti concordano che il 2023 non è il 2011, anno della caduta del governo Berlusconi IV sotto la tempesta dello spread. Ma nella comunità del business come a Roma indubbiamente tutti sono d’accordo nell’indicare le scelte che “Lei”, la chiamano così per distacco per distinguerla dall’afflato dei suoi che insistono con “Giorgia”, farà prima e dopo le Europee come il vero crocevia per capire la durata del governo.
In quest’ottica, il polverone politico sollevato dall’articolo di Annalisa Cuzzocrea su La Stampa il 29 settembre in cui si cita l’aria di governo tecnico attorno Palazzo Chigi, le martellate del quotidiano torinese e della “sorella” di Gedi, Repubblica, sul tema dello spread e l’evocazione di un cordone sanitario sull’Italia formato dal Commissario agli Affari Economici Paolo Gentiloni e dagli ex premier Mario Draghi e Enrico Letta, incaricati rispettivamente dalla Commissione e dalla presidenza di turno spagnola di procedere a rapporti sulla competitività economica europea, ha avuto l’effetto sperato. Quello - cioè - di “stanare” il governo Meloni sulle sue difficoltà. E mostrare il fiato corto del governo su tre punti fondamentali: innanzitutto, la difficoltà di mettere a terra tutte le proposte politiche della campagna elettorale; in secondo luogo, il combinato disposto tra una fragilità strutturale dei conti e promesse della bozza di manovra difficili da mantenere; in terzo luogo, la scure che potrebbe abbattersi dall’Europa.
Le tre spine di Meloni
Sul primo fronte, il governo Meloni si deve muovere tra piani ambiziosi e risorse scarse. Dal taglio del cuneo fiscale alle pensioni, la politica economica procede sul piccolo cabotaggio. E come successo nel 2022, la Manovra non sarà risolutiva in un contesto in cui l’onda lunga del caro-vita e del caro-energia continuano a erodere i risparmi degli italiani.
Sul secondo c’è una sostanziale contraddittorietà tra la proclamata cautela e la volontà di non rinunciare al sentiero di riduzione della spesa pubblica più improduttiva, ragion per cui Meloni e i suoi hanno in ogni caso spostato in avanti la lancetta dell’orologio per il ritorno del deficit sotto il 3% del rapporto col Pil segnato dalle regole europee. La Nadef recentemente approvata prevede un aumento della spesa pubblica di 16 miliardi di euro nel 2023, 12 miliardi nel 2024 e 8 miliardi nel 2025. Tale aumento è finalizzato a coprire i costi del bonus per i lavoratori dipendenti, come i tagli all’Irpef e al cuneo fiscale, e l’avvicinamento graduale alla flat tax. Inoltre la Nadef prevede che il governo rientrerà nel limite del 3% del Pil per il deficit pubblico nel 2026, e sul piano dei risparmi per il 2024 prevede un drastico taglio delle spese. Questo taglio, pari a 2 miliardi di euro ai ministeri e a 20 miliardi di euro di privatizzazioni, è un obiettivo molto ambizioso, che in passato è stato spesso mancato. Per far tornare il debito pubblico in una traiettoria discendente, il governo ha ipotizzato una crescita del PIL del 3,6% nel 2023 e del 2,9% nel 2024. Queste previsioni sono però molto vulnerabili a fattori esogeni, come il prezzo del petrolio, il rischio di cambio e i rendimenti dei titoli. In caso di un peggioramento di questi fattori, il governo potrebbe trovarsi in difficoltà nel rispettare i propri obiettivi di finanza pubblica.
E qua veniamo al terzo punto: la riforma del Patto di Stabilità. Se dal cilindro europeo dovesse uscire il coniglio di un nuovo rigore, dal 2024 l’Italia si troverebbe sotto pressione col ritorno delle regole sospese ai tempi della pandemia e con la prospettiva di ritornare a subire ogni anno l’ordalia del giudizio sulla manovra a Bruxelles.
Questi tre fattori aiutano a capire perché politicamente Meloni e i suoi siano in difficoltà e abbiano individuato nella ricerca dello spauracchio del governo tecnico voluto dalla sinistra, dai media ad essa compiacenti e dalle élite europee l’ennesimo tentativo di fare scaricabarile sui limiti della loro azione. Una mossa che può anche rientrare nel quadro della campagna elettorale per le Europee 2024 ma che ha mostrato tutta la fragilità di un’azione di governo strettamente legata alla lotta per il consenso, oggi contesa da destra dopo l’apertura della campagna elettorale da parte della Lega su temi come fisco, sanità, condoni e via dicendo per sfidare Fratelli d’Italia.
Il contrappasso della Meloni d’establishment
Si crea un movimento dinamico, dunque, in cui contro Meloni si riapre la fase degli attacchi sulla presunta inaffidabilità e alla premier si fa arrivare all’orecchio la pulce della nuova “draghizzazione”, come a sottolineare che la rincorsa all’establishment compiuta finora non è stata sufficiente. Il governo tecnico non esiste nel progetto politico di alcuna forza, men che meno del Partito Democratico di Elly Schlein che guida l’opposizione, ma è un “luogo del cuore” il cui ricordo si può evocare comodamente per ottenere dividendi politici a scapito del governo. E per mettere in discussione l’entrata nel sistema di Giorgia Meloni, dato che il principale candidato individuato dalla stampa per guidarlo è quel Fabio Panetta, “Draghi di destra”, che Meloni ha fortemente voluto alla Banca d’Italia. E che non si sa perchè dovrebbe rinunciare a una carica di sei anni a Palazzo Koch per una ben più complessa avventura a Palazzo Chigi.
L’affondo di Giannini
Ma ormai la frittata è fatta: lo spettro dei tecnici è esso stesso il governo tecnico. Invita politicamente al timore e all’autocensura (e tra poco Meloni dovrà decidere su Patto di Stabilità e Mes) e aiuta i critici dell’esecutivo ad alzare il livello dell’attacco.
Con in mente l’articolo di Cuzzocrea il direttore de La Stampa Massimo Giannini ha invitato l’esecutivo a recitare come una litania il prossimo rincorrersi dei rinnovi del rating delle agenzie, in una rievocazione del “giudizio dei mercati” che mancava dall’era del governo Conte I, nel 2018: “Non si escludono altri downgrading, cioè ulteriori retrocessioni sul grado di affidabilità del nostro debito pubblico. Ne basterebbe anche uno solo, a trasformare i Btp italiani in titoli spazzatura. Pioverebbero pietre, visto che l’anno prossimo dobbiamo collocare oltre 300 miliardi di bond senza l’ombrello della Bce”, nota Giannini ricordando che “il 20 ottobre tocca a Standard&Poor’s, che finora ci ha assegnato una tripla B. Il 27 ottobre tocca a Dbrs, ferma a sua volta sulla tripla B. Poi si potrebbe profilare davvero un “novembre nero”: il 10 è la volta di Fitch, mentre il 17 chiude in bellezza Moody’s, fino adesso ferma su uno scivoloso Baa3”.
Il sentiero stretto dell’Italia
Insomma, tra un Patto di Stabilità capace di tornare, un governo che ha procrastinato al post-Europee il mantenimento degli impegni su riduzione della spesa e del debito e obiettivi messi nero su bianco per la crescita e la stabilità macroeconomica dell’Italia difficili da realizzare, il vero nodo sarà capire se politicamente da qui a fine legislatura (2027) Giorgia Meloni potrà e vorrà restare in cabina di regia a Palazzo Chigi per gestire anni duri per l’economia internazionale e quella italiana. Un governo tecnico ad oggi non avrebbe consensi parlamentari e nel Paese.
L’obiettivo degli avversari di Giorgia Meloni è far sì che di fatto sia l’esecutivo di centrodestra a comportarsi come governo tecnico di fatto riducendo la sua carica di rottura, ad oggi tutt’altro che manifestatasi. Quello dell’esecutivo tirare la corda sull’assedio straniero per giustificare ritardi e inefficienze nell’azione dell’esecutivo. In questo balletto, tanti problemi restano senza risposta, dalla politica industriale alle crisi accumulate negli anni (Ita, ex Ilva, Mps e via dicendo), dal futuro del Pnrr alla lotta alle disuguaglianze. Resta la rissa politica, alimentata ad arte dalla stampa. E poco altro, in un Paese guidato da una politica che guarda a traumi e fasti del passato o vagheggia del futuro. Dimenticando, troppo spesso, le prove del presente.