Condoni, condoni, sempre condoni: In trent’anni sono costati all’Italia 107 miliardi di euro di mancato gettito e questo basterebbe a togliere dal tavolo ogni discorso riguardante nuove sanatorie indiscriminate e non rivolte ad alleviare evidenti stati di necessità o indigenza. La proposta di Matteo Salvini e della Lega di promuovere nuovi condoni arrivata al governo Meloni, di recente, ha riaperto un annoso dibattito. Salvini è partito dal tema del condono edilizio sul modello lombardo per il fronte del patrimonio immobiliare nazionale. L'idea è stata lanciata durante un intervento al convegno di Coordinamento legali di Confedilizia, l'associazione che rappresenta gli interessi dei proprietari di casa. Salvini ha dichiarato che un condono edilizio permetterebbe di mettere in regola "centinaia di migliaia" di costruzioni che non seguono le norme. L'obiettivo, secondo il leader leghista, è quello di portare più soldi nelle casse dello Stato, in vista della prossima manovra. Salvini ha sottolineato che le piccole irregolarità edilizie stanno intasando gli uffici tecnici dei Comuni di mezza Italia. "Non sarebbe più saggio per quelle di piccole entità andare a sanare tutto quanto, così lo Stato incassa e i cittadini tornano nella disponibilità piena del loro bene?", ha chiesto retoricamente il ministro. Anni di prassi insoddisfacente da parte di governi di ogni colore politico dovrebbero sconsigliare mosse del genere. Il mito dello Stato che incassa con i condoni va di pari passo con un’altra leggenda del nostro Paese: quello che vedrebbe un fisco attivo sul modello “Sheriffo di Nottingham”, salassatore implacabile e cinico. Tanto da avere almeno 1.100 miliardi di euro, più di metà del Pil, di crediti non riscossi. E lo “Stato che incassa” nei condoni è un "Giano Bifronte". A fianco del quale c’è lo Stato che rinuncia a incassare. Parlano i numeri. Nei condoni promossi nel trentennio successivo allo scandalo di Mani Pulite, che fece del tema della corruzione e del predominio dei “furbi” una questione nazionale, con punte di iconoclastia, le risorse a cui lo Stato ha rinunciato con i condoni promossi sono state molto di più di quelle incassate. Undici in trent’anni, dal governo Andreotti VI al governo Draghi, divenuto effettivo nel 2022, hanno fatto sì che “da strumento per gestire passaggi riformatori” queste misure divenissero “un mezzo per raccogliere risorse” e per “tagliare i ricorrenti nodi gordiani di un contenzioso periodicamente intasato”, ha scritto la Banca d’Italia in un report.
Tutti i condoni della Seconda Repubblica
107,7 miliardi di euro di risorse perdute contro 70,8 di incasso: l’Italia ha rinunciato a poco più del 60% delle risorse relative ai debiti oggetto di condono e solo in piccola parte (pensiamo al saldo e stralcio del Conte I) targettizati in termini di platea a cittadini con redditi bassi o a debiti limitati. In definitiva, dal 1992 a oggi abbiamo avuto quattro condoni fiscali propriamente detti: uno nel 1992 con Andreotti (5,9 miliardi di euro, al cambio attuale, di entrate contro 10,1 di risorse non incassate), uno nel 1995 pensato dal governo Berlusconi I e messo a terra dal governo Dini (2,2 miliardi di incasso, 3,8 di debiti condonati), il mini-condono di D’Alema nel 1998 (1,8 contro 2,6 miliardi) e, soprattutto, il maxi-condono del Berlusconi II nel 2003. Il condono del 2003 consentiva la regolarizzazione di tutti i reati tributari commessi fino al 31 dicembre 2002. Il condono è stato molto controverso, in quanto ha consentito a molti contribuenti di evadere le tasse senza subire conseguenze. Altro che “fisco ladro”: il condono del Ministro dell’Economia Giulio Tremonti con un gettito mancato di 33,7 miliardi di euro è stato il più costoso per le casse nazionali e anche l’apologia dell’idea secondo cui “lo Stato incassa” garantendo entrate per 22,8 miliardi di euro. Un quinto tipo di manovra di questo tipo è stato il condono alle sanzioni sui debiti fiscali del 2021 promosso da Mario Draghi, che fece rinunciare a 3,6 miliardi di euro di risorse per far entrare nelle casse dello Stato 2,8 miliardi di euro. I governi Amato (1993), Berlusconi I (1994), Prodi I (1996) e Berlusconi II (2002) promossero quattro condoni edilizi per regolarizzare le opere realizzate in difformità dalle norme urbanistiche e/o edilizie, rendendole legali e sanando quote di sanzioni. Il gettito complessivo di questi quattro condoni è stato di 17,9 miliardi, ma lo Stato ne ha al contempo lasciate per strada, non incassate anche se dovute, ben 28,9 miliardi. E infine, “gemelli” nei condoni sono stati gli arcinemici Matteo Renzi e Giuseppe Conte. Il primo con la voluntary disclosure sul ritorno dei capitali “neri” all’estero in Italia previa sanzione nel 2015 (3,2 miliardi contro 4,8 di gettito perso), il secondo col citato saldo e stralcio del 2018 (2,5 contro 3,4)
L’analisi-autodenuncia di Tremonti sui condoni
Insomma, in Italia non c’è un condono in trent’anni che abbia fruttato più di quanto lo Stato abbia rinunciato a incassare. In sostanza sottraendo risorse ai cittadini: quattro manovre finanziarie, in termini di risorse, sono state sottratte per accattivarsi il voto dei furbi da parte di uno Stato inefficiente prima, perchè in difficoltà nell’incassare, e fesso poi, perchè chiamato a condonare. “In Sudamerica il condono fiscale si fa dopo il golpe” per conquistare consensi ai nuovi regimi, mentre “in Italia lo si fa prima delle elezioni, ma mutando i fattori il prodotto non cambia: il condono è comunque una forma di prelievo fuorilegge”, sentenziava dalle colonne del Corriere della Sera Giulio Tremonti, allora economista socialista in rampa di lancio. Destinato poi a diventare tra Berlusconi I e II il “re” dei condoni della Seconda Repubblica. Tremonti rincarava la dose: promuovere massicciamente i condoni, come hanno fatto quasi tutti i governi alternatisi nel trentennio secondorepubblicano, significa difendere un “sistema smontato e rovesciato, in cui a dettare legge sono proprio i fatti fuorilegge, l'evasione e la furbizia”. Per Tremonti esagerare coi condoni vuol dire far sì “che il rapporto fiscale si basi su questa ragione pratica: farla franca, confusi tra milioni di evasori; farla lunga, coltivando con calma la lite; farla fuori, con poche lire di condono”. Vista col senno di poi, un’autodenuncia di un’intera classe politica che in nome della rapidità d’incasso ha sacrificato la rule of law e soldi decisivi per promuovere sanità, servizi, welfare, opere pubbliche e strategie industriali. Sic transit gloria mundi.