“Un’ossessione da talk show, buona sola a inseguire la questione sul piano emergenziale”: Domenico Quirico, giornalista de La Stampa a lungo inviato nei più caldi teatri di guerra del mondo, è tranchant sulla questione dei migranti che in questi giorni domina l’opinione pubblica. “È quasi una perversione della nostra opinione pubblica e della nostra politica” quella di “occuparsi dell’Africa, un continente in pieno sommovimento” solo quando l’emergenza sbarchi è “cavalcata da media e politica”. Questo, dice Quirico a Mow, “ci impedisce di capire che l’intera Africa è in fibrillazione”. A partire da quella alle spalle dei Paesi di partenza degli immigrati.
C’è un Africa che ribolle, dunque. Quali sono gli scenari caldi?
“Dall’Atlantico al Mar Rosso c’è una fascia intera di Paesi in fibrillazione. Pensiamo alle tensioni in Etiopia, al permanere di un regime schizofrenico e liberticida in Eritrea, al Sudan che è sprofondato nella guerra civile. Ma non solo. Il grande dato di fatto sono due questioni fondamentali che cambiano il volto dell’Africa: l’inizio di una vera e propria rivoluzione africana con la fine degli ultimi residui di colonialismo e l’insorgenza jihadista”.
In che misura si può parlare di “rivoluzione africana”?
“Mi riferisco alla demolizione dell’ultimo, anacronistico e dannoso residuo legato alla cosiddetta Françafrique. Quanto successo in Mali, Niger, Guinea, Burkina Faso e Gabon negli ultimi anni è a dir poco emblematico”.
Regimi legati organicamente a Parigi, quelli estromessi. Caduti però con colpi di Stato…
“Sfido io a pensare ad altri metodi! La realtà è che questi sistemi di governo in larga parte eredi del sistema coloniale in termini di rapporti di forza con l’ex madrepatria hanno perpetrato lo sfruttamento a lungo, creando dei sistemi fintamente democratici in cui in realtà, molto spesso, con tassi di corruzione altissimi i presidenti deposti rispondevano a Parigi, ai suoi potentati economici, e si trovavano di fatto con le truppe francesi sul loro territorio. Hanno cominciato Mali e Burkina Faso, poi il Niger ha confermato questo trend. Prendo come caso a sé giusto il Gabon, dove comunque la famiglia dei Bongo che deteneva il potere ed è stata deposta aveva rapporti con i nomi più forti del capitalismo francese: Vivendi, Bnp Paribas, Total e via dicendo”.
Come giudica questo processo sul piano politico?
“Presto ci accorgeremo che la fine di questo sistema di potere antistorico, inefficace e in piena decomposizione rappresenti un’opportunità storica. Rappresenta la fine della velleità della Francia di pensarsi quella potenza che non è più. Pertanto è una notizia da accogliere positivamente, anche se ovviamente con distinguo: nessuno vuole ovviamente che all’egemonia francese si sostituiscano quella russa o cinese. Ma certamente è comprensibile che l’opportunità per l’Africa di chiudere col passato coloniale e vivere finalmente una sua prospettiva allo sviluppo possa essere a portata di mano”.
Il nodo delle giunte militari al potere è problematico in tal senso?
“Sono convinto sarà solo una questione temporanea. Mi spiego: le popolazioni africane si sono risvegliate, non intendono soggiacere più al giogo coloniale. Ragion per cui difficilmente assisteremo alla nascita di nuove giunte militari di lungo periodo. Presto i desideri di rinnovamento dei popoli indurranno i militari a rientrare nelle caserme. Ma, ripeto, nel breve periodo sarebbe stato ingenuo pensare a qualsiasi forma di sostituzione delle vecchie forme di potere con modi diversi da quelli che sono stati messi in scena, mancando totalmente i presupposti democratici”.
Veniamo ora al problema jihadista…
“In Africa è ormai annoso e persistente. Pensiamo alla storica città di Timbuctu, da un mese sotto assedio islamista. Lo Stato Islamico, in Paesi come Repubblica Centrafricana e Burkina Faso, ha creato molte sue sezioni locali che agiscono esattamente come facevano in Siria e Iraq, creando strutture territoriali simili a piccoli Stati. E danneggiando le prospettive di sviluppo e convivenza civile di questi Paesi”.
Spesso, per rispondere a sfide di questo calibro, si parla di collaborazione allo sviluppo con l’Africa…
“Quale collaborazione? Quella dello sfruttamento neocoloniale? Dobbiamo capire che in molti Paesi il nostro modello di sviluppo non è il benvenuto e spesso Paesi come la Francia sono letteralmente odiati, a livello di popolazione civile. Il combinato disposto tra lo sfruttamento neocoloniale e l’insorgenza jihadista è il vero freno allo sviluppo di questi popoli. Un danno che abbiamo contribuito a creare”.
In quest’ottica, quindi, diceva che parlare unicamente dell’Africa in relazione alla questione migratoria sia fuorviante?
“Sì, è qualcosa di incredibilmente miope. In Africa a ogni livello si sta scrivendo la storia. In maniera spesso drastica, violenta, come accade in ogni rivoluzione, ma c’è un mondo intero in fermento. Noi non riusciamo ad avere un’agenda che vada oltre la prossima puntata dei talk show. Si pensa quasi che gli africani lascino i loro Paesi per una pulsione atavica all’emigrazione. Non è così! Si dia all’Africa la prospettiva di sviluppare una sua via e si capirà che non è così. Quella che si è avviata è una rivoluzione destinata ad aver conseguenze profonde. E non è pensando a strampalati interventi politici o militari per invertire il corso della storia che cambieremo la situazione”.