È difficile immaginare due leader più distanti di Giorgia Meloni e Pedro Sánchez al momento sul palcoscenico europeo. Eppure, la presidente del Consiglio e il suo omologo spagnolo c’è più di qualche punto di contatto se si guarda alla gestione degli istituti di credito. Da qualche tempo i due si ritrovano a giocare la stessa partita con lo stesso modulo: il catenaccio. In Spagna, l’esecutivo ha imposto una clausola anti-fusione alla maxi-operazione Bbva-Banco Sabadell da 14 miliardi: per tre anni, le due società dovranno restare separate. In Italia, la premier ha tirato fuori dal cassetto il Golden Power per provare a stoppare l’offerta pubblica di scambio (ops) lanciata da Unicredit su Banco Bpm. Due paesi, due fusioni tentate, lo stesso riflesso condizionato. Agitando l’argomento della tutela occupazionale e dell’accesso al credito nei territori più “sensibili”, la politica entra a gamba tesa nel gioco di Borsa e impone regole extra-finanziarie. In realtà, come spiega il Foglio, né Sánchez né Meloni vogliono scatenare malumori nei rispettivi bacini elettorali: in Catalogna i voti degli indipendentisti tengono in piedi il traballante governo spagnolo; in Lombardia, Veneto e Piemonte la Lega e il Nord produttivo sono l’ossatura dell’esecutivo italiano. E così, mentre l’Europa chiede a gran voce un sistema bancario più integrato e competitivo, Roma e Madrid oppongono resistenza, trasformando ogni tentativo di consolidamento in un caso di “sicurezza nazionale”. Una logica protezionistica contraria alle fusioni che, secondo alcuni, rischia di indebolire i settori bancari nel futuro, quando questi dovranno confrontarsi con i veri e propri colossi continentali.

In Italia, vicenda tra Unicredit e Banco Bpm ne è l’esempio perfetto. Dopo mesi di schermaglie, la DGComp – l’Antitrust europeo – ha dato il via libera all’operazione, imponendo però la cessione di 209 filiali in zone nevralgiche: Sicilia, Verona, Modena, Novara e Milano. Una condizione pesante, ma che ha anche un significato politico: l’Europa ha respinto il pressing di Roma, che chiedeva di avere l’ultima parola sulla fusione. Unicredit, galvanizzata dal semaforo verde di Bruxelles, ha riaperto l’offerta lunedì 23 giugno, ma con un problema grosso come un palazzo: il prezzo resta fortemente scontato rispetto al valore di mercato. Andrea Orcel, il ceo più ambizioso della finanza italiana, sostiene che Banco Bpm abbia corso in Borsa solo grazie all’interesse di Unicredit. Giuseppe Castagna, il boss di Piazza Meda, ribatte che i risultati della banca parlano da soli: utile record, rendimento superiore all’11 per cento e una base di piccoli azionisti fedeli. Entrambi dicono mezza verità, e forse è per questo che nessuno ha ancora messo i soldi sul tavolo: alla prima tornata, aveva aderito allo 0,018 per cento del capitale. Per ora, l’ago della bilancia è Crédit Agricole, azionista al 20 per cento e silenzioso stratega dell’operazione. A Parigi ufficialmente tacciono, ma la partita si gioca tutta su quel silenzio: se i francesi spingono, la fusione si fa. Se restano neutrali, Castagna tiene botta. Nel frattempo, Unicredit ha fatto ricorso al Tar contro il Golden Power, e l’udienza è fissata per il 9 luglio. Fino ad allora, le azioni resteranno congelate nelle mani dei fondi, e il mercato si limita a osservare con il fiato sospeso. Orcel, intanto, ha già detto la sua: “I governi vincono sempre”. Ma anche le banche, a volte, sanno quando è meglio ritirarsi.

La guerra fredda tra banche non è solo un problema italiano. Più in generale, è l’opposizione alla costruzione di un “mercato dei capitali unificato” a livello europeo, in grado di attirare investimenti e finanziare l’innovazione, a far tirare il freno ai governi. Il progetto dell’Unione bancaria – con un fondo comune di garanzia dei depositi e un safe asset europeo, come caldeggiato più volte da Mario Draghi – resta lettera morta finché ogni governo agirà da custode della propria parte di credito. E come si fa a chiedere alla Germania di non bloccare Unicredit su Commerzbank, se l’Italia usa lo stesso metodo in casa propria? Alla fine, Meloni e Sánchez rischiano di vincere una piccola battaglia nazionale, compromettendo la partita della finanza europea. Sarà la scelta giusta?