Pensandoci bene, Michele Serra potrebbe chiedere di andare all’Eurovision al posto di Olly, lo vedrei bene lì a cantare Occhi di gatto con Elly Schlein e Chiara Valerio. Di cosa parliamo quando parliamo di Europa? Ne conosciamo le forme, il volto, l’immagine, noi che, geograficamente osservando il mappamondo, non sappiamo andare con lo sguardo oltre lo Stivale, isole comprese? Tutto il resto che c’è da intuire subito dopo le Alpi, la dogana di Ventimiglia. Europa estranea, oscura, se non come circostanza turistica, diportistica, Europa senza nome stesso. “Sapete, quest’estate sono stato in Grecia, e tu?”. “Noi invece abbiamo scelto la Spagna, la Costa Brava.” Ogni Paese come monade a sé stante, tolta la Svizzera immaginata invece come isola neutrale, buco di cioccolato bianco nell’incerta percezione dell’intera nebulosa continentale. E mai nessuno che abbia detto, tornando a casa, d’essere stato appunto “in Europa”. Silenzio tombale davanti alla domanda: “Com’è l’Europa?” o peggio ancora, metti, in sede accademica: “Mi parli dell’Europa, cominciando dai suoi confini, la ascolto, prego”. Quanto alla sua bandiera blu, incoronata da un girotondo di stelle nazionali, esposta, accostata ormai per obbligo ufficiale accanto al tricolore, anche in questo caso persiste una sensazione di simbolico posticcio, sbaglio? Quanto alla familiarità presunta del tricolore uno scrittore italo-francese della banda di “Charlie Hebdo”, François Cavanna, ritenva che si trattasse di una parodia simbolico-cromatica del vessillo dell’Esagono giunto insieme alla rivoluzione del 1789, più che mostrare un proprio segno identitario comune, familiare, sembra semmai un orpello, un complemento d’arredo, da porre accanto al ritratto di Mattarella, poco più di un portaombrelli, un barometro da parete.

I boomer, di bandiera europea ne ricordano invece un’altra segnata da una grande E di colore verde su campo bianco, simbolo di un sogno araldico appunto europeista, federalista, ampliamento in progress del domino o magari del “gioco del quindici” post-risorgimentale: dalla scrivania di noce nostrana con zampe leonine del conte di Cavour alla tribuna Hi-Tech, del Parlamento di Strasburgo o, magari, dell’ex Reichstag riconsacrato alla democrazia dopo l’infame incendio appiccato dai nazista per incolpare i loro oppositori, la sua volta di cristallo come promessa di luce e pace ritrovata. Era allora il tempo del Mec, il Mercato comune europeo, accrocco commerciale la cui icona veniva riprodotta perfino sui francobolli: l’Europa tra la dentellatura si mostrava come ponteggio, cantiere in corso, progetto virtuoso in via di realizzazione, torre non più di Babele del dopoguerra sul quale si costruiva un futuro comune; peccato che i testi di storia delle classi dell’obbligo, sebbene si concludessero proprio con i volti dei “padri fondatori”, Adenauer, De Gasperi, Schumann, Spaak e gli altri, grasso che cola se riuscivano a sfiorare la prima guerra mondiale o addirittura si arrestavano boccheggianti al primo paragrafo del Congresso di Vienna. I più colti, proprio loro, le “anime belle” di sinistra, orientamento, diciamo, liberal-socialista, citano sempre non meno virtuosamente il Manifesto di Ventotene, accostandolo alla barba del suo promotore, Altiero Spinelli, lo stesso Altiero che Silvio Orlando evoca, insieme a Ernesto Colorni e Sandro Pertini in modo quasi religioso, se non confessionale, nel film Un altro Ferragosto di Paolo Virzì, spiegandone le mosse al nipotino che forse preferirebbe andare a caccia di polpi e totani con i coetanei.

Quanto alla destra-destra in questi giorni sempre più evidente perfino nelle cancellerie già socialdemocratiche, convinta che l’Europa sia morta definitivamente con la sconfitta, luttuosa ai loro occhi, delle elegantissime armate del “Reich Millenario”, proprio questa, l’Europa, dicevamo, agli occhi del sovranista cui è cara l’autarchia provinciale, rionale, circoscrizionale è poco più di un sentimento da “radical chic”. Un presagio che i manifesti di Salò realizzati da un illustratore mirabile Gino Boccasile, lo stesso delle “Signorine grandi firme”, accreditavano iconicamente mostrando la Nike di Samotracia razziata dai “negri” di Harlem in uniforme di sergente V Armata e in combutta con il “rapace ebreo” da naso adunco di Wall Street. Un verso degli anni Sessanta del poeta “novissimo” Antonio Porta così recita: “Europa cavalca un toro nero”. L’Europa? Che minchia sarà mai questa Europa? Tornando alla sinistra, escludendo gli ammiratori del già menzionato Cavour (per chi volesse approfondire il personaggio in tutto il suo spessore, oltre la vulgata da album di figurine risorgimentali, c’è uno straordinario illuminante testo di Giorgio Dell’Arti, “Cavour: Vita dell'uomo che fece l'Italia”, Marsilio) di fatto non è mai stata convintamente europeista, internazionalista semmai, “Proletari di tutti i paesi unitevi” oppure in subordine “Nostra patria è il mondo intero”. Certo, Palmiro Togliatti, immaginando dopo la spartizione del continente a Yalta, elaborando la “via italiana al socialismo”, pretese che nel simbolo del Pci vi fossero la bandiera rossa e la bandiera tricolore lì sovrapposte quasi a baciarsi, impossibile però immaginare che nello stesso contrassegno potesse aggiungersi anche il blu stellato, o sbaglio? La verità è che non si vogliono dirimpettai. Sempre restando in Europa, Mussolini parlando appunti dei nostri dirimpettai francesi, cittadini già europei, affacciato al “balconcino” di Palazzo Venezia, pronunciò: “Non abbiamo più bisogno di queste cuginanze”. Un sentimento altrettanto condiviso dai nostri turisti che andando in Francia, benchè lettori di Asterix, lamentarono la supponenza sciovinista gallica della gente del luogo e la presenza dei vermi nel formaggio, così, tornando a casa, si convinsero che meglio dell’Italia non c’è nulla al mondo, la pasta asciutta cucinata da mamma come cuspide culturale: puro Edipo politico. Quanto invece alla gente di Britannia ricordo che nei miei giorni in divisa da soldato al Comando Alleato del Sud Europa a Bagnoli, base Nato, avevano perfino l’infermeria per fatti loro, mai che li abbia visti insieme al resto delle truppe nelle serate trascorse a giocare a bingo al “Flamingo”, il circolo presente all’interno del complesso militare, dove invece i marines Usa erano promiscuamente di casa.

Se le cose, se le premesse, sono esattamente queste, c’è da interrogarsi sul letterario candore del giornalista virtuoso “di sinistra” Michele Serra che dalle colonne di “Repubblica” nelle settimane scorse ha lanciato un appello per una manifestazione che sollevi l’idea dell’Europa come luogo, in tutti i sensi, comune, fissata per il prossimo 15 marzo, immagino in risposta alla tracotanza di Donald Trump e il ghigno criminale di Putin, chiedendo a sua volta di portare unicamente bandiere europee? Il vincitore di Sanremo, Olly, ha detto che non parteciperà all’Eurovision, e forse anche questo è un segnale, metafora dello stato delle cose. Nel mio quartiere, a Palermo, primi anni Settanta, in via Empedocle Restivo, c’era una boutique, “Kikù”, il titolare, Marcello, compagno di classe, fascista iscritto alla Giovane Italia, sulla cui tessera prevedibilmente svettava solo il tricolore, per decoro scenografico da discoteca alla moda, aveva piazzato nel locale l’Union Jack, ossia la bandiera dei Beatles e degli Stones, apoteosi del Regno Unito dei jukebox, la stessa che appare riprodotta perfino sui tettucci delle Mini Minor, accadeva però che i suoi amici “camerati”, notandola lì sulla parete, non potessero fare a meno, mossi da un sentimento nazionalistico, di lamentarne la presenza: “Perché non metti invece un bel tricolore invece di quella roba?”. Echi dell’astio verso la “Perfida Albione” e delle parole del giornalista Mario Appellius che, nei giorni delle sanzioni all’Italia fascista, aveva coniato una sentenza riprodotta perfino sui distintivi da portare nell’asola della giacca insieme alla “cimice”: “Dio stramaledica gli inglesi”. Giuseppe Attilio Fanelli, mio vicino di casa, fascista della prima ora, duellante, da Gramsci definito “espressione limite teratologica della reazione”, nel 1935, sempre dopo le sanzioni, dalle pagine di una rivista intitolata testualmente “Antieuropa”, inviò un cartello di sfida al leader laburista britannico Clement Attlee. Prontamente rispedito al mittente dallo statista inglese, spiegando che il titolare di un governo democratico può esprimere ogni ordine di opinione su un paese, a maggior ragione se retto da un regime totalitario, meglio, fascista.
Se le cose stanno nuovamente immobili così, chissà quali le aspettative sempre più virtuose di Michele Serra, posto che le sue obiezioni sullo stato attuale delle cose umane e belliche è sembrato almeno ai nostri occhi balbettante, argomenti mossi dal prevedibile spinterogeno del bon ton progressista, mai pienamente liberatorio nel senso della chiarezza. La pace, certo, ma quale nella percezione dell’amichettismo dominante a sinistra? Personalmente, come ho scritto sui social: “Sono già sceso in piazza domeniche fa, a Milano, dopo l'appello di Carlo Calenda, pur nulla avendo da condividere con quest'ultimo, come ben sanno coloro che mi leggono. Ma all'invito ‘virtuoso’ di Serra rispondo ‘no, grazie’. Il mio disprezzo, non meno noto, per Putin e la Russia stato canaglia è del tutto politico ed etico, e non, ripeto, ‘virtuoso’”. Al mio posto, accanto alle attese bandiere europee, immagino, ci saranno certamente gli unicorni delle cosplayer di Lady Oscar, una compagnia di turisti e turiste letterari della pace in presenza di un’aggressione al “deprecato Occidente” in atto. Sia detto con inquietudine, una comitiva che non fa per me.
