Ma cosa hanno in comune la storia di Moussa Sangare e quella di Jeffrey Dahmer? All’apparenza nulla. Il primo ha ucciso a coltellate Sharon Verzeni e il secondo è noto per il suo essere un serial killer, il cannibale di Milwaukee. Eppure, un punto di congiuntura che lega queste tragiche storie, esiste: i vicini di casa degli assassini non sono stati ascoltati per tempo da parte degli inquirenti. L’allarme, purtroppo, è rimasto inascoltato. Il nome di Jeffrey Dahmer è tornato a riempire i titoli di giornale dopo la pubblicazione della serie Netflix sulla sua vita, dove viene dato ampio spazio proprio alle richieste, di un intervento concreto, da parte delle forze dell’ordine. Ma che cosa è successo? Facciamo un passo indietro. Pamela Bass, che è stata una delle vicine di casa di Dahmer, ha più volte tentato di denunciare la presenza di strani e sgradevoli odori e rumori inquietanti provenienti proprio dall’appartamento in cui viveva Dahmer. Il motivo di quegli odori? Dopo l’arresto, nel 1991, l’amara quanto macabra scoperta: Jeffrey Dahmer conservava parti del corpo delle sue vittime all’interno della sua abitazione. Non solo, molte erano state uccise proprio lì. Pamela Bass ha anche testimoniato contro Jeffrey Dahmer. A lei si unisce Glenda Cleveland, che in diverse occasioni ha provato ad allertare la polizia sulle stranezze che gravitavano attorno a Dahmer e alla sua casa. Rappresentativo un caso in particolare. Infatti, se i suoi avvertimenti fossero stati presi in considerazione, Konerak Sinthasomphone di soli quattordici anni, si sarebbe potuto salvare. Invece gli agenti di polizia, allertati da Glenda Cleveland, scelsero di credere alla versione di Dahmer secondo cui Konerak era il suo fidanzato, maggiorenne, e che era scappato per via di un litigio. Nonostante il ragazzino non era nelle condizioni di reagire e parlare perché drogato, fu comunque riconsegnato nelle mani di Dahmer che lo uccise poco dopo.
Questo schema ci riporta all’omicidio di Sharon Verzeni commesso da Moussa Sangare. Anche in questo caso le richieste d’intervento da parte dei vicini sono cadute nel vuoto. Ciò significa che, molto probabilmente, Sharon ora avrebbe potuto essere ancora viva. “Avevamo paura di Moussa Sangare. Dicevo a mio marito e mio figlio di stare alla larga da lui. È un anno che denuncio, ho chiamato il sindaco, gli assistenti sociali e i carabinieri, ma qua deve succedere il fatto perché qualcuno intervenga”. Questo lo sfogo di una delle vicine di case dell’assassino, che da ben sette anni vive nell’appartamento sotto a quello della famiglia Sangare: “Alle tre di notte sentivo le botte, sembrava che venisse giù il soffitto. Era una persona con rabbia accumulata, che nel subconscio ha il male. Non era gentile, era fuori di sé”. Motivo per cui vorrebbe passasse il messaggio che la morte di Sharon non è il risultato di un raptus: “Lui ha fatto violenza alla sua famiglia. Ha incendiato casa sua. C’era il fumo. Stava qua strafatto, dovevo passargli sopra. Entrava in casa dalla finestra. Lo trovavamo qua di notte alle tre o alle quattro”. Una drammatica situazione che era sotto gli occhi di tutti. La colpa di Sharon? Trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. Moussa Sangare avrebbe potenzialmente potuto uccidere chiunque…