C’era una volta la Germania di Angela Merkel: la “locomotiva d’Europa” che guardava gli altri membri dell’Ue dall’alto verso il basso; il gigante economico che continuava a crescere mentre i vicini alzavano bandiera bianca, travolti da conti in rosso e crisi politiche; il cuore industriale del continente che poteva contare su un governo forte formato da personaggi e ministri di spessore. Bene, dimenticatevi tutto questo perché oggi la Germania è diventata un nano politico, oltre che un gigante, sì, ma dai piedi d’argilla. Internamente, poi, il Paese deve fare i conti con un fenomeno politico inedito.
Di cosa si tratta? Per la prima volta dal 1945, un partito di estrema destra, Alternative fur Deutschland (Alternativa per la Germania, AfD), ha trionfato alle ultime elezioni regionali. Nello specifico, Afd, fondato nel 2013, ha vinto nella regione orientale della Turingia ottenendo il 33% dei voti, ben al di sopra la soglia del 24,5% raggiunta dal partito conservatore Cristiano-Democratico (Cdu). La Spd del cancelliere Olaf Scholz si aggira intorno al 6,5% in Turingia (dall’8,2% del 2019) e al 7,5% in Sassonia (dal 7,7%). Il partito populista di sinistra Bsw di Sahra Wagenknecht è invece terzo sia in Turingia che in Sassonia. Che cosa significa tutto ciò? Che a circa un anno dalle elezioni nazionali Scholz si ritrova pressato dall’ondata populista che sta iniziando a travolgere la Germania, nel recente passato terra del rigore politico e della moderazione. Nel mirino di Afd e Bsw sono finite le politiche sull’immigrazione avallate da Berlino, quelle sul sostegno all’Ucraina e quelle riguardanti la sicurezza nazionale, tanto più dopo l’attentato di Solingen del 23 agosto.
Come ha fatto la Germania a finire in un pantano del genere? Il punto di partenza del declino tedesco potrebbe esser fatto coincidere con lo scandalo che nel 2015 ha demolito le certezze del colosso dell’automotive nazionale Volkswagen. Come ha ricordato Il Corriere della Sera, in quel periodo Berlino manteneva ritmi di crescita consistenti e, con un certo compiacimento, chiedeva ai membri dell’Ue sforzi politici ed economici che portassero quelli stessi Paesi ad adottare varianti locali del “modello tedesco”. L’idillio sarebbe terminato quando l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente avrebbe scoperto lo “scandalo Volkswagen”. Il colosso del made in Germany, nonché più grande costruttore di auto del continente, aveva manipolato 11 milioni di modelli venduti dal 2009 in poi facendo in modo che, dall’analisi dei test, non emergesse il fatto che i loro motori diesel inquinassero oltre i limiti consentiti. Risultato: l’azienda sarebbe finita nell’occhio del ciclone e con lei l’intero Paese. O meglio: l’intero sistema economico tedesco.
Già, perché nel frattempo la crescita tedesca stava iniziando a rallentare. Una crisi invisibile aveva avvolto una Germania che continuava a credersi sana, ma nessuno – Merkel in primis – sembrava essersene accorto. Il governo ha quindi rallentato il flusso di investimenti, mentre l’emergenza sanitaria del Covid, la guerra in Ucraina e le tensioni commerciali con la Cina avrebbero contribuito a demolire il modello teutonico. Senza più poter contare sul gas russo a buon mercato e sui rapporti privilegiati con Pechino, fornitore di un enorme mercato per le grandi aziende tedesche, la Germania ha capito che la sua epoca d’oro era ormai tramontata. I risultati delle elezioni locali in Turingia e Sassonia sono visti da molti come una cartina tornasole per Scholz e i suoi partner di coalizione in vista delle elezioni generali del 2025. Mentre l'AfD ha messo l'immigrazione al centro della sua agenda, la coalizione costruita del cancelliere sta scricchiolando, con lotte intestine, disaccordi politici. Tschuss Deutschland.