Come scrive lui stesso, l’ultimo libro di Matteo Renzi uscito ieri (“Il mostro”, Piemme, 17,90 euro) “non è un’arringa di difesa”. È un atto d’accusa contro tutti i suoi principali nemici. In centonovantadue pagine l’ex presidente del Consiglio dà la sua versione sui propri guai giudiziari e sulle vicende politiche che lo hanno riguardato negli ultimi anni rivendicando tutto, senza eccezione, errori compresi. Ripetendo più volte quello che sembra essere stata la molla psicologica, oltre che la motivazione politica, che lo ha indotto a sfornare la sua dodicesima fatica editoriale: ribattere sempre e comunque, contro chiunque lo ostacoli.
Ostentando serenità (“Sono un uomo felice”, è l’incipit del primo capitolo), la prima parte è interamente dedicata allo “scontro magistratura-politica”, di cui le indagini nelle quali è stato o è coinvolto sono, naturalmente, materia di particolareggiati excursus per dimostrare che non intende affatto fuggire dai processi, ma piuttosto che è vittima di una “character assassination” che lo ha reso “un mostro” a furia di “finti scandali”. La sua reazione, com’è noto, è stata denunciare per vari reati i magistrati che hanno investigato su di lui e sulla Fondazione Open che finanzia la Leopolda: il procuratore capo fiorentino Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi (insistendo in seconda battuta con un ricorso contro le archiviazioni). Non solo, ma ha anche sollevato il conflitto di attribuzione contro la Procura di Firenze davanti alla Corte Costituzionale. Per non parlare delle cause civili ai giornalisti. Lo ha fatto per “rispondere colpo su colpo”, per non lasciare “demolire l’immagine del bravo ragazzo boy scout”, perché non passi il messaggio che qualcuno, come l’Associazione Nazionale Magistrati, possa intimare a un imputato “Stai zitto”. Renzi è sicuro che c’entri il tentativo da parte sua, quand’era premier, di tagliare di quindici giorni le ferie alle toghe, o di battagliare per una maggiore “meritocrazia”.
Avendo peccato, come più d’una volta rimarca, di “ingenuità”, ecco finire nel tritacarne di inchieste i cui autori vengono ritenuti, in sostanza, colpevoli di cattiva fede e pregiudizio personale. “Non mi fido” dei miei accusatori, è la tesi dell’accusato Renzi. E non si fida più neanche di chi gli era amico e sodale politico, come l’attuale vicepresidente del Csm David Ermini. Secondo il leader di Italia Viva, Ermini avrebbe distrutto “materiale ufficiale, proveniente dalla Procura di Milano”, cioè i verbali consegnatigli da Piercamillo Davigo sulla Loggia Ungheria. Altro che Luca Lotti, rimasto nel Pd ma evidentemente ancora nelle sue grazie, ingiustamente infamato come improbabile unico dei politici a “parlare coi magistrati”. Ermini, che pure “deve tutti i passaggi della sua carriera alla stretta vicinanza con lui”, ha già annunciato di voler sporgere querela. Unico fatto di rilievo, finora, all’anticipazione del libro-sfogo di Renzi.
Il contrattacco si allarga poi a scudo dell’amico imprenditore Marco Carrai, del cognato e ovviamente del padre Tiziano, tuttora sotto processo per bancarotta fraudolenta e fatture false. Presunti reati “ben più odiosi”, si lamenta l’ex segretario Pd, hanno investito il figlio di Beppe Grillo e i padri di Luigi Di Maio e Alessandro di Battista, ma a suo avviso sono stati “immediatamente silenziati dal sistema mediatico”. Odiosissima, in particolare, la pubblicazione di lettere di carattere privato, come quella fra lui e il papà inserita nelle carte processuali (in cui Renzi senior additava il cosiddetto “Giglio magico” renziano, fra cui la ex ministra Maria Elena Boschi, di “aver lucrato” sul figlio come la “banda Bassotti”).
“Male non fare, paura non avere”, l’ammoniva la nonna. Ma si sa cos’è la politica: “Sangue e merda”, per dirla con un adagio risalente alla Prima Repubblica. E allora tanto vale togliersi ogni singolo sassolino dalle scarpe. L’arcinemico di sempre, Massimo D’Alema? “Lo compatisco”. Di Maio? Uno che sta seguendo “un programma di recupero” che prevede di “cancellare le tante pagine maldestre” del passato scusandosi “di tutto, con tutti”. Il sottosegretario grillino agli Esteri Manlio Di Stefano? Uno “scandalo” sia ancora al suo posto, nel governo sostenuto anche da lui. L’ex titolare degli Interni Marco Minniti, ex compagno di partito nel Pd? “Prima o poi qualcuno” andrà a “verificare i contributi delle fondazioni degli altri”, come la fondazione ICSA “culturalmente molto vicina” all’ex ministro. La Banca d’Italia? “Non è più la Banca d’Italia del passato, quella di Einaudi, Menichella, Carli e Ciampi: è quella di Ignazio Visco”. Una Bankitalia che ha permesso che siano stati “resi pubblici ai media tutti i miei spostamenti di denaro personale degli ultimi anni”, quasi fosse “un terrorista”. Sarà forse che è responsabile di aver voluto archiviare la plurisecolare storia delle banche popolari, sarà che la “mancata vigilanza” di Palazzo Koch e della Consob lo ha portato a opporsi al rinnovo rispettivamente di Visco e di Giuseppe Vegas, fatto sta che, anche qui, l’ha pagata con processi a danno di Boschi Sr e con la segnalazione per le sue consulenze in Arabia Saudita (difesa a spada tratta, la petromonarchia del Golfo belligerante in Yemen, come “baluardo nella lotta contro il terrorismo internazionale”, guidata da quel Mohammad bin Salman su cui pende il sospetto mondiale di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Kashoggi).
In un andirivieni di ricordi e stretta attualità, Renzi non si esime dal ribadire la propria posizione sulla guerra in corso: meglio “far aderire l’Ucraina all’UE e non alla Nato”, appoggiandosi alla linea Macron e prendendosela con Putin più che altro per le “interferenze russe” sulle votazioni non solo in America, ma anche in Italia, precisamente nel 2016 e nel 2018, gli anni in cui la sua fortuna cominciò a declinare. Gli dicono che è antipatico. Risponde Renzi: “Va bene”, non devo esserlo per forza. Giudicatemi per quel che ho fatto. Lui non avrebbe fatto, per esempio, l’accordo firmato da Draghi con i Benetton sulla revoca della concessione di Autostrade, in quanto alla fine “i Benetton prendono più soldi e un asset di rilievo nazionale finisce nelle mani di fondi speculativi”. Né tanto meno avrebbe fatto da co-intestatario, come Matteo Salvini nel governo Conte 1, del reddito di cittadinanza, una “elemosina statale”. E non farà come altri politici che in passato si sono schermati dietro l’immunità parlamentare: voterà a favore sull’acquisizione della sue stesse conversazioni, nel caso. Così come non farà mai il gioco, che imputa al Pd di Enrico Letta, di sbandierare una legge giusta come la Zan per poi far sì che venga affossata in parlamento, com’è invece avvenuto. La sua prima preoccupazione è mettersi di traverso all’ “asse giallo-verde” M5S-Lega, che per lui è “vivo e vegeto” (e per darne dimostrazione, un intero fittissimo capitolo da retroscenista è dedicato alla ricostruzione della rielezione di Mattarella al Quirinale, successo che avoca a sé per aver impallinato non solo Franco Frattini, “percepito molto amico di Mosca”, ma soprattutto la capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni).
Bersagliato da fake news, oggetto di campagne diffamatorie, messa in forse la sua importanza specifica in base ai sondaggi (“come si fa a pensare che siano i sondaggi e non le idee a guidare il mondo?”), in conclusione quel che sta a cuore a Renzi è tornare su Open: “Un processo politico alla politica” che “ha provato a sporcare l’immagine” della Leopolda, “uno spazio di libertà bellissimo”. Lui, insomma, non ha fatto niente di male. Il che prova “in modo inoppugnabile” che sua nonna, sul famoso detto di nulla temere se nulla di cattivo si è fatto, “aveva torto”.