Alla fine anche la Consob ha detto sì alla pubblicazione del documento relativo all’offerta pubblica di scambio (ops) sulla Popolare di Sondrio da parte di Bper. Un responso che delinea un calendario salutato con giubilo dai vertici della banca modenese: l’offerta prenderà il via il 16 giugno per concludersi l’11 luglio. In una nota, Bper ha ricordato che per ciascuna azione di Pop Sondrio portata in adesione all’offerta riconoscerà un corrispettivo unitario di 1,45 azioni ordinarie proprie di nuova emissione. Tutto a posto, dunque? Non proprio. Perché nel frullatore del risiko bancario, dove il tempo è scandito dai ritmi schizofrenici e serrati della finanza, è facile perdere bussola. Quella che, per esempio, ci aiuterebbe a sollevare qualche interrogativo sulla natura stessa dell’operazione e sulla reale necessità di Sondrio, banca storica e fortemente radicata sul suo territorio, di farsi acquisire. D’altronde, come ci ha scritto un nostro lettore e piccolo azionista di lunga data della Popolare di Sondrio, “i valtellinesi sono un popolo di risparmiatori e finché ci sarà la Popolare di Sondrio la Valtellina può stare tranquilla”.

A rafforzare i dubbi sul perché dell’operazione ci sono anche le modalità con cui la trattativa è iniziata. Altro che un affare alla pari: l’ops, dal valore di oltre 4,3 miliardi di euro, è stata presentata senza alcun confronto preliminare, senza un tavolo comune, senza neppure un bicchiere d’acqua per discuterne. Invece, solo un comunicato e una proposta: “Vi scambiamo le vostre azioni con le nostre, ci guadagnate in solidità e visione industriale”. Peccato che la Popolare di Sondrio non sembri avere alcun bisogno di essere salvata. Anzi. Con un utile netto di 413 milioni nel 2023, un CET1 ratio sopra il 16 per cento, una qualità del credito in miglioramento e una presenza capillare nel territorio alpino-lombardo, la banca ha recentemente alzato il sipario su un piano industriale che definire ottimista è riduttivo. Tra il 2025 e il 2027 prevede 1,8 miliardi di utili cumulati, 1,5 miliardi di dividendi distribuiti e investimenti record da 400 milioni su digitalizzazione e innovazione. Non solo: la banca prevede una crescita media annua del 4 per cento nei ricavi, un’espansione nel wealth management con un +12 per cento medio all’anno e l’apertura a nuovi segmenti di clientela attraverso il rafforzamento dell’offerta multicanale. Insomma, non è la classica preda facile e, almeno sulla carta, non ha alcun motivo per farsi inglobare.

È qui che la vicenda si fa interessante. Perché allora tutta questa fretta da parte di Bper? Perché tentare l’acquisizione di una banca sana, ben posizionata e con la fiducia del territorio? La risposta potrebbe essere scritta a margine, tra le righe di una partita più grande: il risiko bancario italiano. Una partita che vede in campo tutte le più grandi banche italiane – fatta eccezione per Intesa San Paolo – ma anche il governo con il Golden Power, oltre al ministero dell’Economia con la sua partecipazione in Monte dei Paschi di Siena. Un grande gioco che corre nella direzione della concentrazione del potere finanziario in pochi grandi poli, in una corsa a chi sarà il secondo – o magari, un giorno, il primo – player nazionale. Dopo le nozze tra Intesa e Ubi, e in attesa di capire cosa succederà tra Mps e Unicredit, Bper punta a rafforzarsi e a consolidare il suo ruolo da terzo incomodo. Ma la fusione, stavolta, non nasce da una fragilità da colmare, bensì da un progetto industriale che guarda a una partita finanziaria e non creditizia. E qui le carte si scoprono: la Popolare di Sondrio non è in vendita, né ha mostrato il minimo interesse a farsi assorbire. La sua autonomia non è folklore alpino, ma una scelta strategica. Eppure, l’ops arriva comunque, confezionata come alleanza ma con lo sguardo da predatore.

Che si tratti di una mossa “amichevole”, come dichiarato da Bper, fa sorridere più di un osservatore. Soprattutto, fa preoccupare molti risparmiatori della Popolare, molti dei quali non sono mai stati dell’idea di snaturare la banca. Anche perché, con l’arrivo di un “partner” che in realtà si comporta da Conquistador già da prima dell’inizio dell’ops, le incognite aumentano: chi deciderà davvero la strategia futura? Cosa succederà all’occupazione, alle filiali nei territori, alla governance attuale? E poi c’è il tema che tutti evitano, ma che pesa come un macigno: la crescente concentrazione bancaria, questo gigantesco abbraccio tra giganti che lascia sempre meno spazio ai piccoli. Meno banche autonome significa meno pluralità, meno concorrenza, meno accesso al credito per le migliaia di piccole e medie imprese sul nostro territorio – una peculiarità unica per il nostro paese – meno personalizzazione nel rapporto con il cliente, un elemento che dalle parti di Sondrio ma non solo è l’ossatura del valore – anche culturale – della banca. E mentre i comunicati promettono sinergie e razionalizzazioni (che in gergo significa tagli), i numeri raccontano un’altra storia: quella di una banca, la Popolare di Sondrio, che sembrerebbe poter continuare da sola. Il rischio, alla fine, è che l’unica cosa a crescere davvero non sia il valore per gli azionisti, ma la distanza tra chi comanda e chi subisce le decisioni. E in quel caso, più che una fusione, sarebbe l’ennesima conquista travestita da partnership.