“La Roma vince con il bushido dei samurai!”, ruggiva ieri con voce arrochita Fabio Caressa al termine di Bayer-Roma, diventando subito virale sui social. Un omaggio all’allenatore José Mourinho, considerato dal cronista sportivo un discepolo dell’antico codice dei guerrieri giapponesi. Una teoria, sulla “nipponicità” del coach portoghese, che Caressa aveva avuto modo di spiegare in un video del 12 novembre 2022, in cui ci aggiungeva anche “L’arte della guerra” di Sun Tzu, che avrebbe ispirato Mourinho nell’abitudine a “far sentire assediata la squadra”, così da tenerla “compatta” e “tener fuori il nemico dallo spogliatoio”. I valori del bushido, Caressa dixit, sono “impegno, onore, lotta a fianco degli altri, coraggio, abnegazione”, non rispettando i quali i giocatori sono stati in passato perfino “fatti spogliare altrove”, dal samurai José. “Chi mina il concetto assolutistico dell’unità di gruppo, diventa un nemico”, riassumeva Caressa, che in quell’occasione, dubitando che una tale tecnica di controllo potesse adattarsi a una realtà come quella di Roma, criticava l’oggi osannato Mourinho (“è giusto? Secondo me, no”).
Come sempre avviene quando si cita una realtà o fenomeno che appartiene al passato, a maggior ragione se di una civiltà diversa dalla propria, parlare à la Caressa di bushido come equivalente di una generica regola di condotta (per di più mischiandola a un testo, “L’arte della guerra”, molto più antico, e non giapponese, ma cinese) riduce la cosa a banalità da stadio. Poco male, trattandosi appunto di una semplice telecronaca a bordo campo. Però, se si vuole andare oltre l’evocazione buttata lì, gioverebbe sapere qualcosa, almeno nei fondamentali, del bushido. La cultura dei samurai, che è il nome in voga in Occidente per designare i bushi, la casta degli uomini d’arme del Giappone pre-moderno, risale a parecchi secoli fa. Etimologicamente, viene dalla contrazione di budo, la Via del Guerriero, e di shido, la Via del Cavaliere. Il bushido è, traducendo liberamente all’europea, il codice cavalleresco dei professionisti della guerra, derivante dalle regole di disciplina militare e morale elaborate in una lunga gestazione, diciamo dal XII al XVI secolo, e formalmente definite nel periodo Tokugawa (1603-1867).
Ispirato via via da quell’impasto di shintoismo, buddhismo Zen, taoismo e neo-confucianesimo in cui venne ad amalgamarsi il contesto culturale e religioso giapponese, il corpus di concetti non possiede una “scrittura sacra” né un libretto d’istruzioni univoco, ma si compone di varie codificazioni e testimonianze, scritte spesso da monaci-guerrieri (com’è il caso del famosissimo “Hagakure” del maestro Zen del Seicento Yamamoto Tsunemoto). A ben guardare, si tratta più di uno spirito da apprendere e, soprattutto, da applicare esercitandosi fisicamente e mentalmente, che non di un elenco di prescrizioni. Ad esempio, uno dei più antichi autori della tradizione bushido, Shiba Yoshimasa, un burocrate imperiale entrato poi negli ordini buddisti, considerava i princìpi etico-religiosi solo degli strumenti per coltivare il carattere e l’intelligenza, senza idealizzare il sacrificio ultimo, la morte in battaglia, in quanto per lui valida solo se moralmente giustificata. Un altro pensatore, Nakae Toju (1608-1648), ammoniva a tenere ben saldo il legame complementare, sulla falsariga dello yin e yang del Tao, fra “cultura” e “marzialità”, l’una “la radice” dell’altra in quanto entrambe con lo stesso significato: “battersi per sottomettere chiunque ostacoli il rispetto dei genitori, la fratellanza, la lealtà e la fedeltà”.
La fedeltà, s’intendeva, all’Imperatore e al signore feudale. Successivamente, quando in epoca Meji, nella seconda metà dell’Ottocento, l’Impero del Sol Levante si aprì alla modernità straniera, con la ventata di nazionalismo che per autodifesa ne derivò, quella comunemente detta “Via del samurai” divenne una sorta di ideologia popolare che trasformò i bushi medievali in un vero mito politico (operazione raffigurata piuttosto bene, tolta la patina hollywoodiana e le semplificazioni storiche, nel pregevole film “L’ultimo samurai” con Tom Cruise). Per brevità, potremmo dire che i punti-chiave per intuire, se non proprio comprendere, la spiritualità del guerriero giapponese sono due: primo, la necessità di calmare la mente, di tenerla “sotto l’ombelico”, perché se non si sa metterla al suo posto “permea ogni cosa”, soffocando quella tranquillità d’animo senza cui la sconfitta è certa; secondo, la consapevolezza che il combattimento, contro il nemico esterno ma anche contro il nemico interno, le paure e le pulsioni che ci sopraffanno, fa parte della vita, pertanto l’aggressione, l’irascibilità, la brutalità sono sintomi di viltà e immaturità, non di forza. “Il dominio di sé deriva dal continuo superamento di quelle inclinazioni di natura che è difficile vincere”, dice una massima che insegna, in fondo, la lezione principale del bushido: che anche il debole può diventare forte. Un insegnamento un po’ più profondo del sostanziale “spirito di squadra”, per quanto severo e militaresco, mourinhesco, del nostro esperto di calcio Caressa.