Un guerriero, un lottatore, un duro: amici e avversari lo piangono e gli rendono onore enfatizzando la sua vita a testa alta e la battaglia con la malattia, ma è proprio durante la sua vita, e non in morte, che SinišaMihajlovic – spentosi venerdì ad appena 53 anni – è stato capace di non essere uno buono per tutte le stagioni. Il motivo? Era un uomo di parte e non l’ha mai nascosto, di una di quelle parti che la storia ha deciso essere quelle sbagliate: aveva vissuto e conosciuto gli orrori e gli abomini la guerra nella ex Jugoslavia, negli anni Novanta, e lo aveva fatto da serbo. Appunto: la parte considerata sbagliata.
Ecco la narrazione che Mihajlovic non ha mai accettato e che ha controbattuto con carattere, sincerità e asprezza, anche. Perché Sinisa, in un mondo del calcio sempre attento alle parole affinché non esca mai nulla di particolarmente interessante o intelligente, era uno di quelli che avevano qualcosa da dire. Ai tempi della sua prima esperienza sulla panchina del Bologna, nel 2009, risale un’intervista che nelle ultime ore hanno ripreso in tanti. Si stacca dal nulla cosmico dei protagonisti del pallone, non si perde in reticenze, è sincera e violenta come i suoi calci di punizione. Cruda. La scrisse Guido De Carolis, uscì il 23 marzo di quell’anno sul dorso bolognese del Corriere della Sera e in quel contesto Mihajlovic ricostruisce fatti, parole, opere e sensazioni di una vita segnata appunto dalla guerra civile. Ricordi “terribili, incancellabili, inattaccabili”, l’orgoglio di papà Bogdan che non volle lasciare Novi Sad pur sotto le bombe, la “caccia al serbo” nella sua città natale, Vukovar, il famigerato necrologio per Zeljko Raznatovic, alias la tigre Arkan (“lo rifarei, perché Arkan era un mio amico: lui è stato un eroe per il popolo serbo. Era un mio amico vero. Io gli amici non li tradisco né li rinnego”), la nostalgia per la Jugoslavia di Tito, il suo nazionalismo (“se vuol dire patriota, se significa amare la mia terra e la mia nazione, lo sono”), il rifiuto a riconoscere il Kosovo e, di nuovo, la fermezza nel tenere il punto (“su di noi hanno raccontato tante cose. Troppe non vere”).
Fu un’intervista dirompente, eminentemente politica, come dirompente in fondo è sempre stato il Mihajlovic pubblico. Non un santo, non un demone, uno con le cui idee si poteva non essere per nulla d’accordo, ma che le piazzava sul tavolo costringendo in qualche modo a fare i conti con esse. Nel 2021 Bologna gli conferì la cittadinanza onoraria (abbastanza strumentalmente: senza la malattia e il clamore mediatico, non l’avrebbe mai fatto), scatenando le polemiche: chi gli dava del fascista, chi gli chiedeva di dissociarsi dai criminali di guerra, chi questo, chi l’altro. Figurarsi, per uno che aveva visto davvero di tutto: come avrebbero potuto scalfirlo le polemiche della piccola politica? Tanto quanto la vuota retorica del calcio, cioè zero. Per dire: da allenatore del Torino, anni fa in conferenza stampa, a un giornalista che gli fece presente come non fosse facile per un ragazzo di 22 anni (Marco Benassi, nel caso di specie) indossare la fascia di capitano granata, rispose con una frase che affondò la banalità: “No, non è facile svegliarsi alle 4.30 e andare a lavorare alle 6, fare tutto il giorno e non arrivare a fine mese, questo non è facile”.
Lui invece ce l’aveva fatta. Idolo in Patria, vincitore di una Coppa dei Campioni già a 22 anni con la Stella Rossa, calciatore forte, famoso e ricco (Roma, Sampdoria,Lazio, Inter), ormai di stanza in Italia dove aveva trovato moglie, Arianna, e cresciuti nel frattempo cinque figli. Il resto sarebbe stato solo la storia della carriera, prima in campo quindi in panchina (c’è anche una breve avventura alla guida della nazionale serba), di un uomo orgoglioso, non fosse stato per la malattia, scoperta sostanzialmente per caso nel 2019 e spiattellata al mondo dalla prima pagina di un quotidiano sportivo. Cosa che non accettò, ma perdonò poi. Quando lo comunicò, non ci girò intorno: “Ho la leucemia. Quando me l’hanno detto sono rimasto per due giorni chiuso in camera a piangere e a riflettere. Non voglio far pena a nessuno, ma spero che da questa storia tutti capiscano due cose: nessuno è indistruttibile e la prevenzione è importante”.
Sono seguite le cure, i cicli di chemioterapia, le immagini dei giocatori riuniti sotto la finestra della sua stanza di ospedale, il primo ritorno in panchina, il trapianto di midollo osseo, il Covid (e anche lì, le polemiche: ora che pareva stesse bene, avevano ricominciato a fargli le pulci, ché l’empatia dura finché sei fuori gioco, poi basta) e un rientro che si sperava definitivo, ma lo scorso marzo egli stesso annunciò il ritorno della malattia, rimettendosi a nudo nella fragilità. L’esonero da parte del Bologna, a settembre, è uno degli aspetti di cronaca meno rilevanti di una storia, quella della sua vita, vissuta a petto in fuori. Divisivo, l’hanno definito. Orgogliosamente di parte, casomai: la sua, e tanto basta.