L’intervista a Salvatore Baiardo (ne abbiamo parlato qui) è stata l’ultima di una serie di fatti e notizie riguardanti il biennio stragista della mafia, 1992-1993, in cui, gira che ti rigira, salta sempre fuori il nome dei fratelli Graviano. Chi sono i fratelli Graviano? E perché, pur scontando entrambi l’ergastolo al carcere “duro”, il 41 bis, fanno ancora parlare di sé? Che cos’ha di particolare la storia di Giuseppe e Filippo Graviano, a cui il giornalista Salvo Palazzolo ha dedicato un libro, uscito l’anno scorso per i tipi di Laterza? Perché, insomma, c’è bisogno di conoscere i misfatti di due boss della mafia i quali, a differenza di altri, non hanno mai dato segni di pentimento?
La loro vicenda criminale comincia a tutti gli effetti dopo il 7 gennaio del 1982. All’alba di quel giorno, nel cuore del quartiere Brancaccio di Palermo che era e sarà il loro feudo, viene freddato Michele Graviano, costruttore edile appartenente a Cosa Nostra, padre di Giuseppe, Filippo, Benedetto e Nunzia. Autore del delitto è Gaetano Grado, uomo di fiducia del boss Stefano Bontade. In quegli anni è in corso la guerra fra la “vecchia mafia” dei palermitani, a cui era affiliato Grado, e la “nuova mafia” dei corleonesi, in ascesa e destinata a vincere. Giuseppe e Filippo, i due giovani che si propongono come astri nascenti della “nuova”, ambiscono a scalare il potere al suo interno. Sono loro due a sostituire Giuseppe Lucchese e a diventare, nel 1990, i capi del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, una delle zone mafiose in cui è suddiviso il capoluogo siciliano. A dare il via libera alla promozione è Totò Riina.
I due fratelli, nei loro quattro anni di dominio, appongono la firma a una serie impressionante di assassinii, ordinandoli o eseguendoli in prima persona. Infiltrano i loro tentacoli nei più vari business, dal commercio agli immobili, incluso quello delle aree di servizio nelle vicinanze dell’ingresso autostradale di Palermo. Ma soprattutto, è loro la mano che mette in atto la strategia delle stragi negli anni ’92-’93. Giuseppe è stato accusato da alcuni pentiti di aver azionato il telecomando che il 21 luglio 1992 fece esplodere la Fiat 126 imbottita di tritolo che uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta in via D’Amelio, e assieme al fratello è stato fra i mandanti della strage di Capaci in cui era morto Giovanni Falcone. Ma fu nell’anno successivo che i fratelli diedero il via alla sequenza degli attentati per piegare lo Stato e condurlo all’accomodamento: 27 maggio, autobomba salta in aria in via dei Georgofili a Firenze; 27 luglio, altra autobomba, questa volta in via Palestro a Milano, davanti alla Galleria d’Arte Moderna; un’ora dopo, due bombe scoppiano a Roma, una in piazza San Giovanni in Laterano, davanti la Basilica, l’altra accanto alla chiesa di San Giorgio Velabro. Fra gli omicidi da ascrivere ai due, il più tristemente celebre è il colpo di pistola alla nuca di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio che si scagliava apertamente contro la mafia. Fu ammazzato il 15 settembre, sempre del ’93.
Finalmente, il 27 gennaio 1994, Giuseppe e Filippo Graviano vennero arrestati a Milano, mentre mangiavano al ristorante con le rispettive famiglie. Si sentivano garantiti dall’impunità, vivendo a Omegna, sul lago d’Orta in Piemonte, dove circolavano a volto scoperto conducendo una vita di lusso. Non facevano i latitanti imbucati e nascosti, né tanto meno si proteggevano con un profilo basso, monacale, alla Totò Riina. Erano più come Matteo Messina Denaro, “scoperto” solo qualche mese fa, e anzi, più di Matteo Messina Denaro, ostentavano agi e modi da ricchi sfondati e sfrontati. Ancor oggi, ed è questo il motivo per cui non si smette di tornare su di loro, custodiscono segreti rimasti tali. Ad esempio, secondo un rapporto della Dia di cui parla il Fatto di oggi, Giuseppe Graviano, intercettato in carcere per due volte, nel 1998 e nel 1999, avrebbe inviato "messaggi" destinati a Marcello Dell'Utri, per i quali è stato poi sentito dai giudici di Firenze negli anni successivi. Forse Baiardo, che era l'autista dei Graviano e, a differenza dei due, è libero dopo aver scontato i suoi anni dietro le sbarre, sa comunque più di quel che dice, e di quel che non dice.