C’è una novità rilevante nella palude della politica italiana. Martedì alla Camera sono state votate alcune mozioni che riguardavano il posizionamento del governo italiano rispetto alla guerra a Gaza. L’esito più importante di queste votazioni è stata l’approvazione di una parte di una mozione presentata dal Partito Democratico che impegna tra l’altro il governo «a sostenere ogni iniziativa volta a chiedere un immediato cessate il fuoco umanitario a Gaza». A differenza dell’invio di armi all’Ucraina — un terreno su cui Lega e M5s manifestano ogni volta la loro ostilità — nel conflitto in Medio Oriente il Parlamento è riuscito a ritrovarsi su una linea bipartisan, che ha unito le principali forze politiche e soprattutto la segretaria del Pd, Elly Schlein e la premier Giorgia Meloni. Le due si sono telefonate, si sono confrontante, il Pd ha accettato di modificare alcune parti del suo testo e la maggioranza di destra ha accettato di astenersi, facendo in modo che i voti delle opposizioni bastassero a farlo passare. Liberare gli ostaggi, cessate il fuoco per tutelare la popolazione civile, garantire aiuti umanitari continui e sicuri a Gaza. Questi i punti principali. Oltre all’idea di portare avanti un processo di pace «fondato sulla coesistenza di due Stati sovrani e democratici». Altre mozioni di altri partiti sono state votate, bocciate in toto o in parte. Ad esempio, da una mozione del M5S è stata presa solo una parte che condannava Hamas. Di una mozione di Italia Viva è stato bocciato il capoverso che proponeva di dichiarare «femminicidio di massa» i fatti avvenuti il 7 ottobre, e così via. Tutto ciò, come sempre in questi casi, non avrà necessariamente effetti concreti sull’azione del governo: le mozioni sono solo formalmente vincolanti, e possono essere contraddette. Soprattutto in uno scenario geopolitico dove l’Italia conta poco o nulla. Ma servono servono a mostrare il posizionamento dei partiti sulle singole questioni. E segnalano un clima politico. E questo è un clima nel quale, sebbene le posizioni pro-Palestina siano di fatto emarginate dai palinsesti e mortificate persino su quotidiani come Repubblica, Meloni si è resa conto che forse, come capo del governo, le conviene assumere una posizione un tantinello più critica nei confronti di Israele. Alleato geopolitico che resta, ci mancherebbe altro, solidissimo. Così come il primo ministro Benjamin Netanyahu, di una destra radicale che condivide molti intellettuali di riferimento con la galassia meloniana. Si pensi a Douglas Murray, a Yoram Hazoni, a Jordan Peterson. Ma il problema è che la rappresaglia dell’Idf a Gaza si sta prolungando troppo, i risultati sembrano scarseggiare, le immagini di bambini maciullati e interi quartieri rasi al suolo non si contano e Meloni, da politica sgamata qual è, ha percepito la brutta parata. A livello internazionale, ma anche negli umori italiani.
A gennaio Meloni ha timidamente fatto capire di non condividere la contrarietà di Netanyahu alla soluzione dei due Stati, cioè all’ipotesi di creare uno Stato palestinese e uno israeliano, ma bella forza: è la posizione anche di Joe Biden, ormai, e di innumerevoli altri leader occidentali. Più significativo il fatto la destra abbia abbandonato il suo filoisraelismo più intrasigente, lasciandolo alle minoranze massimaliste di centro e di destra. Non è un segnale da poco che persino il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, noto per le sue banalità sparate a raffica, durante un’intervista a Radio 1 abbia detto, con toni per una volta netti, che «a questo punto la reazione di Israele è sproporzionata, ci sono troppe vittime che non hanno nulla a che fare con Hamas». Suscitando, ma questa non è una sorpresa, la delusione di diversi giornalisti e personalità filo-israeliane radicali, come Giuliano Ferrara e Stefano Parisi. Una parte l’hanno giocata anche le recenti polemiche di Sanremo: le dichiarazioni contro «il genocidio» da parte di due artisti, Dargen D’Amico e Ghali, sono valsi gli attacchi della destra e le scuse della Rai - da molti ritenute simbolo di sottomissione e mancanza d’autonomia. Ma il comunicato dell’ad Rai letto da Mara Venier, anziché contenere la polemica, l’ha ulteriormente amplificata. Il vero motore della media storm, scrive su Haaretz la giornalista Anna Momigliano, più che le parole di Ghali, sono state le reazioni del campo pro-Israele, tutto a difesa dello status quo. Il casino, comprensivo anche di scontri tra polizia e manifestanti a Torino e a Roma, ha rimesso al centro del dibattito la «carneficina» di Gaza (come la chiama il cardinale Parolin, e per questo definito «deplorevole» dall’Ambasciata di Israele in Italia) in un Paes dove il sostegno incondizionato a Israele è stato sempre scarsissimo, ma dove sono pochi quelli davvero informati sulla questione. E questo a Meloni non va. E sel Pd è rimasto solo la cariatide Piero Fassino a farsi sponda degli attacchi israeliani contro Ghali, e a dichiararsi «sconcertato» per il fatto dal palco dell’Ariston nessuno abbia ricordato il massacro del 7 ottobre (come se non fosse già presente nella quotidianità mediatica italiana) persino Pierferdinando Casini, solitamente cauto, ex democristiano di centro-destra, riesce a dire cose più autentiche e progressiste del leader ex-Pci torinese: «Dissento dalle politiche del governo Netanyahu che ha gravissime responsabilità... la questione palestinese è un buco nero nelle nostre coscienze», dice a La Stampa. Poco prima della mozione comune, un’altro esponente del campo filoisraeliano più rigido e cieco, Davide Faraone di Italia Viva, aveva sfida gli ex compagni, accusandoli di «ammiccamenti al cosiddetto “pacifismo” di Conte. Vedremo domani (ieri, ndr) se il Pd si farà influenzare dalla suggestione “Ghali”». E suggestione è stata: nell’accordo Meloni-Schlein su Gaza, le due leader, rispettivamente classe 1977 e 1985, dicono sostanzialmente quello che dice il cantante: che in Medio Oriente sta succedendo qualcosa di orribile, che il rischio di pulizia etnica è più che reale, che valutare l’ipotesi si tratti di genocidio non è più una bestemmia, e che la società italiana non è rappresentata da media e istituzioni schierate spesso ottusamente con una parte sola. Nello sposare indirettamente la battaglia del cantante - censurato da una Repubblica che appena 20 anni fa era molto più progressista sul Medio Oriente, tormentato da un professore di Economia, Riccardo Puglisi, che da giorni ne sta setacciando i tweet sessisti scritti in adolescenza - Schlein e Meloni hanno espresso una posizione vicina a un segmento importante del proprio elettorato, stanco delle prepotenze israeliane e della passività europea. Insomma, con la mozione sul cessate il fuoco a Gaza e il sit-in davanti alla Rai Schlein ha mostrato di saper dare voce ad un disagio diffuso tra i giovani e la sua base molto di più delle cariatidi che l’assediano nel partito. Meloni lo ha fatto invece con più discrezione, senza esporsi troppo. Ma il senso resta lo stesso. «Meloni ha evitato di ostacolare la nostra iniziativa perché è evidentemente consapevole che l’opinione pubblica è estenuata da un’operazione militare», ha detto Peppe Provenzano, della sinistra Pd, colui che forse più di tutti si è speso per promuovere questa iniziativa parlamentare, suscitando le ire di un attivismo ingobbito sulla tastiera a cercare gaffes e fare character assassination di qualsiasi dissidente.