Franco Marchetto non ha mai davvero lasciato Garlasco. Né l’uniforme, anche se ora indossa una medaglietta “da soldato” che, dice, “si mette quando vai in guerra” e si toglierà solo “quando questa storia sarà alle spalle”. Il 13 agosto 2007 era lui a comandare la stazione dei carabinieri. Quel giorno Chiara Poggi è stata uccisa. Da allora sono passati 17 anni, tre condanne personali, una lunga scia di accuse reciproche, e una rabbia che oggi brucia ancora: “Per me è come se fosse la mia ultima indagine”. Oggi Marchetto è in pensione e gestisce il Blu Bar. Parla con Repubblica, dice che la Procura di Pavia “ci stupirà” e che i carabinieri di Milano “vogliono scrivere la parola fine, non una qualsiasi”. “Finora c’è stato un colpevole, non il colpevole. O i colpevoli”. E quando emergerà il movente, secondo lui, “farà male a due famiglie”. A suo tempo fu estromesso dalle indagini dopo uno scontro con il capitano Gennaro Cassese, all’epoca a capo della compagnia di Vigevano. Le reciproche denunce furono archiviate, ma non le conseguenze: Marchetto ha poi collezionato tre condanne. La prima per favoreggiamento della prostituzione (fu trovato dal suo sostituto nel night La Palanca mentre era in malattia), la seconda per peculato (un gps prestato a Silvia Sempio, zia di Andrea, che serviva per “controllare la famiglia” ma finì per pedinare il marito), e infine per falsa testimonianza: “Ero in caserma quando venne interrogata la signora Franca Bermani, quella della bici nera con le molle cromate. La portai io sul ballatoio, ma lei non mi riconobbe. Non mi conosceva”. Ora, nove anni dopo, gli è arrivata una richiesta di risarcimento da 40mila euro da parte della famiglia Poggi. “Mi amareggia. Proprio ora che mi sto interessando al caso”.


È stato lui, infatti, a mettere in contatto Le Iene con il testimone del canale di Tromello. “Il paese si è sempre diviso su Stasi: molti più innocentisti. Le stesse persone che mi dicevano di guardare in direzione delle gemelle Cappa”. A Stasi Marchetto fece una domanda diretta: “Gli chiesi della ragazza trovata morta. Parlò del volto pallido. Allora gli mostrai la foto e chiesi: è questa, stronzo?”. Oggi riconosce che “quel ragazzino era nel panico”, ma all’epoca avrebbe voluto insistere. “Solo che fu subito messo in una stanza con i genitori. Un errore da dilettanti”. Il giorno dopo andò a vedere la bici nera della famiglia Stasi nell’autofficina del padre, Nicola. “Era diversa. Non la sequestrai io, ma nemmeno i colleghi di Vigevano”. Poi il capitolo più rimosso: le gemelle. “Un testimone smentiva i movimenti della madre quella mattina. E Muschitta — il primo testimone, poi ritrattò — descrisse Stefania in bici con troppi dettagli per mentire. Bisognava entrare in casa loro, indagare a 360 gradi. Ma Cassese disse: tengono l’alibi. Ma chi lo ha mai verificato?” Infine, Andrea Sempio. “Mai sentito finché non lo hanno indagato. Ma lui e il suo gruppo erano tutti ragazzini”. Garlasco non dimentica. E Marchetto non ha ancora finito di parlare.

