Nel 2011, la Procura Generale milanese ha presentato ricorso in Cassazione contro la decisione assolutoria emessa dalla Corte di Assise d'Appello di Milano il 6 dicembre dello stesso anno in merito al caso dell’omicidio di Chiara Poggi. Tale sentenza aveva ratificato il proscioglimento con formula piena di Alberto Stasi già decretato dal Tribunale di Vigevano. L'istanza del pm si fondava principalmente sulla carenza motivazionale, sostenendo che i giudici d'appello, sposando integralmente l'impostazione del gup di Vigevano, avrebbero mal interpretato il materiale probatorio, giudicandolo inadeguato e incoerente. In più sarebbero stati trascurati diversi fattori che la pubblica accusa riteneva cruciali, come l'esclusione di aggressioni a sfondo sessuale, l'impossibilità di fornire un alibi per un preciso intervallo temporale, la ferocia dell'episodio criminoso, le difficoltà relazionali con la vittima testimoniate dai video intimi della coppia e dalle tendenze pornografiche dell'imputato rinvenute nel suo dispositivo informatico. Secondo l'accusa, i magistrati avrebbero erroneamente privato questi indizi del loro peso dimostrativo, mancando inoltre di valorizzare ipotesi investigative alternative come l'intervento di un soggetto ignoto o di un ladro improvvisato. L’accusa ha poi contestato l'evidente illogicità e l’incoerenza della decisione che avrebbe scorrettamente escluso l'ipotesi dell'incidente domestico per insufficienza probatoria. L'eventualità di un aggressore sconosciuto non riuscirebbe a spiegare, nell'ottica dell'accusa, l'estrema violenza dell'attacco subito dalla vittima, conclusosi con il trascinamento del cadavere giù per le scale della cantina. Un ulteriore elemento riguardava l'errata interpretazione del documento redatto dai Carabinieri il 16 agosto 2007, contenente le prime dichiarazioni di Stasi raccolte immediatamente dopo l'accaduto. Tali affermazioni avevano inizialmente orientato gli investigatori verso l'ipotesi di un incidente casalingo. La Procura ha rimproverato ai giudici di non aver attribuito a questi elementi il dovuto rilievo nel determinare le responsabilità penali dell'accusato, configurando così un difetto motivazionale.

L'accusa ha inoltre evidenziato un'incongruenza e una palese irrazionalità nella motivazione della Corte, che aveva scagionato l'imputato basandosi anche sull'assenza di residui ematici e materiale genetico della vittima sulle calzature di Stasi. I giudici avrebbero accettato una perizia che, secondo la Procura, presentava lacune metodologiche per l'omissione di alcuni fattori determinanti. Di tutti gli errori nelle indagini abbiamo già detto. L'accusa ha nuovamente denunciato contraddizioni e irragionevolezza motivazionale, criticando la decisione di non ripetere l'accertamento peritale estendendolo ad alcuni gradini della scala che l'imputato sosteneva di aver percorso durante la sua versione dei fatti. Il Procuratore ha contestato la motivazione relativa al mancato rinnovo della perizia. La Corte aveva giustificato tale decisione con l'impossibilità di ricostruire la mappa delle tracce ematiche sui gradini che conducono al seminterrato, mentre l'accusa sosteneva che tale ricostruzione sarebbe stata fattibile attraverso l'utilizzo delle immagini fotografiche del medico legale. L'ultima argomentazione ha ripreso la questione tecnico-scientifica per contestare ancora la decisione d'appello. Secondo la Procura, si rendeva imprescindibile una nuova perizia per ricontrollare e verificare la cronologia delle fotografie utilizzate dai consulenti per stabilire i tempi di essiccamento delle microgocce ematiche al momento del presunto rientro di Stasi nell'abitazione.
