Tre anni, una valanga di ipotesi e un’unica certezza: Liliana Resinovich è morta. Per il resto, il caso è ancora un groviglio di errori, frettolose conclusioni e una narrazione che comincia a scricchiolare. Lo ha detto chiaro Albina Perri, direttrice del settimanale Giallo, che segue da sempre la vicenda: “Sebastiano Visintin è indagato. Indagato non vuol dire colpevole. Ma è un dato: si è contraddetto. Più volte. Su punti chiave”. Il problema è a monte. Le indagini sono partite male. La prima autopsia, quella che avrebbe dovuto aprire le danze della verità, è stata fatta “seguendo l’istinto”, non i dati scientifici. Una frase che, detta da un esperto, fa quasi ridere. O piangere. “Lo trovo al limite dell'imbarazzante”. Da lì in poi, tutto il resto – rilievi, analisi, interrogatori – è stato fatto in ritardo o fatto male. Per tre anni si è ragionato come se Liliana si fosse suicidata. Ma ora, con il fascicolo per omicidio e un marito indagato, tutti i “dettagli” tornano sotto la lente.


Come la famosa immagine della telecamera che riprende una donna uscire di casa la mattina del 14 dicembre, giorno della scomparsa (e morte?) di Liliana. Da sempre si è detto che fosse Lilly. Era lei. Punto. Ma se non fosse lei? Se quella donna, con le buste della spazzatura in mano, fosse un’altra? Un’analista ora solleva il dubbio. E il dubbio, nei casi di cronaca nera, è tutto. Perché se non era Liliana, cambiano gli orari, saltano gli alibi, si azzerano i riferimenti temporali. E le spiegazioni di Sebastiano Visintin non reggono più. Il video della GoPro, la testimonianza della fruttivendola (già traballante), i suoi racconti – tutto si sgretolerebbe. “Ne siamo così sicuri?” chiede Perri. Perché se Liliana non è mai uscita viva di casa, allora il boschetto, i sacchi, le due settimane di silenzio – tutto prende un’altra piega. E l’assassino non ha agito fuori, ma dentro casa. “Liliana, quel 14 dicembre, è mai uscita da casa sua viva?”

