“Potrei essere stato io a causare quella frattura alla vertebra.” Parole pesanti, che suonano come un’ammissione, o almeno un dubbio che brucia. Che fa riflettere. A pronunciarle è il preparatore anatomico che l’11 gennaio 2022 prese parte all’autopsia sul corpo di Liliana Resinovich, la 63enne triestina trovata morta cinque giorni prima nel boschetto dell’ex Ospedale Psichiatrico di San Giovanni a Trieste, non molto lontano da casa sua. L’uomo, un giovane tecnico triestino, si è presentato spontaneamente agli inquirenti. E adesso sarà ascoltato dal PM Ilaria Iozzi, che indaga sull’omicidio. Il punto? Quella frattura alla T2, scoperta nella seconda autopsia dai medici legali del team di Cristina Cattaneo. Una lesione ossea che nella prima Tac, due giorni prima dell’autopsia, non c’era. E che ora torna come un fantasma a minare le certezze dei periti e a far tremare la narrazione della morte. Secondo i consulenti della Procura, quella frattura fa parte di un “complesso lesivo eteroinferto” compatibile con soffocamento.


Secondo il marito Sebastiano Visintin, indagato per omicidio, e i suoi difensori, invece, potrebbe essere stata causata dalla movimentazione del cadavere al momento del ritrovamento. Ma anche su questo c’è chi dice no. Il preparatore anatomico ha avuto un ripensamento. E ha ricordato manovre “potenzialmente compatibili” con quella lesione. Un’autocritica tardiva o una verità che può cambiare le carte in tavola? Difficile dirlo. Anche perché la Cattaneo, nella sua relazione, scrive che “non risultano manovre post-mortem tali da giustificare la frattura”. Insomma, quella crepa non doveva esserci. Ma c’è. E ora si insinua nelle indagini come un tarlo che corrode. Tre anni dopo, il caso Resinovich continua a non trovare pace. E forse, dopo questa uscita del tecnico di sala settoria, dovremo prepararci a nuovi colpi di scena. Perché anche i morti, a volte, non smettono di parlare. E menomale.

