C’è qualcosa di stonato, l’ennesima nota stridula nella vicenda già assurda della morte di Liliana Resinovich. A più di due anni dal ritrovamento del suo corpo nel parchetto dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni a Trieste, spunta un dettaglio che non è un dettaglio: la bara. “Bisognava che ci fosse la cassa di zinco. Noi non abbiamo scelto quella bara, perché è grezza. Noi avevamo scelto una bara chiara, lucida”, racconta Silvia Radin, la cugina di Liliana. Ma Liliana non è stata sepolta in quella bara. È finita in una cassa non zincata, contro ogni indicazione. Lo dice nero su bianco anche il documento della Procura di Trieste: niente cremazione, utilizzo per studi scientifici, corpo da conservare a disposizione della giustizia. E per conservarlo serviva la zincatura. Invece, non è stato così.

“Lei non aveva niente, dentro un sacco, messa dentro una scatola di cartone”, denuncia Silvia. “Non solo è stata trattata male quando è stata trovata, quando hanno fatto l'autopsia, ma anche quando l'hanno sepolta. Ma cosa c'è dietro a questo punto? Troppe incongruenze, troppe cose fatte male”. A decidere sulla bara è stato Sergio Resinovich, il fratello. Ma anche lui oggi sembra non sapere tutto: “Ho scelto una bara chiara, ma non sapevo come doveva essere fatta dentro”. Chi doveva vigilare su questa parte? Chi ha firmato il via libera a una sepoltura che non rispetta quanto disposto dalla Procura? E perché, in un caso tanto delicato, si sbaglia pure sulla bara? A ogni passo, il caso Resinovich si incarta su se stesso. A ogni svolta, salta fuori qualcosa che non torna. Una sequenza di errori, sviste o altro, che ora fanno vacillare anche l’ultima certezza: quella di un corpo finalmente in pace.

