Dopo due anni di dubbi, ipotesi e silenzi scomodi, il caso di Liliana Resinovich si riaccende. E lo fa con un'accusa pesante, quella di omicidio aggravato. A parlarne sul settimanale Giallo è la criminologa Roberta Bruzzone, dopo l’iscrizione nel registro degli indagati di Sebastiano Visintin, marito della donna scomparsa da Trieste il 14 dicembre 2021 e ritrovata morta tre settimane dopo, nel parchetto dell’ex ospedale psichiatrico non lontano da casa. La svolta arriva con la pubblicazione dei risultati di una seconda consulenza medico-legale disposta dalla Procura. Un nuovo pool di esperti, incaricato dopo che il gip aveva bocciato la richiesta di archiviazione, ha escluso il suicidio. Per loro, quella di Liliana è morte violenta. Tradotto: omicidio. Da lì una corsa contro il tempo che sa di déjà vu. I magistrati autorizzano accertamenti irripetibili su alcuni oggetti sequestrati nell'abitazione di Visintin: forbici, coltelli, un paio di guanti, un maglione giallo. Dettaglio non trascurabile: Visintin lavora da anni come arrotino.


Gli inquirenti cercano una lama compatibile col taglio sul cordino ritrovato al collo della vittima. E fibre che possano raccontare cosa è accaduto davvero. Ma il tempo è passato, e tanto. Due anni e mezzo sono un’eternità, in termini forensi. Come sottolinea Roberta Bruzzone: “Parlare di indagini tardive è quasi un eufemismo”. Perché anche trovando corrispondenze tra oggetti e corpo, resterebbe il buco nero della tempistica. Liliana e Sebastiano vivevano insieme, ed erano insieme quella mattina. Tracce e fibre, quindi, non bastano. Non dicono quando e come siano finite lì. Il rischio, ora, è che tutto si risolva in una caccia al dettaglio, più che a un colpevole. Una strada piena di incognite: "A mio avviso, la nuova inchiesta è tutta in salita". Dove la verità, ancora una volta, rischia di restare solo un’ipotesi.

