Pierina Paganelli è stata uccisa a Rimini, in un luogo e in un tempo che hanno lasciato più domande che certezze. Louis Dassilva è oggi il solo imputato, ma il suo processo potrebbe essere complicato. Perché?
Il giudice per le indagini preliminari ha disposto il rinvio a giudizio per Dassilva, detenuto a Rimini da circa un anno. Il provvedimento, emesso il 15 settembre, è arrivato a ridosso della scadenza dei termini massimi di custodia cautelare. L’accusa è delle più gravi: omicidio aggravato, con ben quattro circostanze – dai “futili motivi” alla “minorata difesa della vittima”.
Ma il cuore della vicenda pulsa su un’altra frequenza, più sottile: “Il processo si preannuncia complesso” perché il caso, spiega il criminologo Armando Palmegiani su Giallo (settimanale diretto da Albina Perri) “presenta infatti elementi riconducibili a quello che in letteratura viene definito un ‘delitto della stanza chiusa’”. Un enigma classico, apparentemente senza soluzione: una situazione in cui, secondo la ricostruzione, “solamente l’imputato sarebbe potuto essere l’autore dell’omicidio”. Una logica di esclusione, quasi un teorema, che rischia però di confondere la semplicità apparente con la verità.

Cosa sostiene davvero l’impianto accusatorio? L’elemento centrale è una “registrazione audio captata da un sistema di videosorveglianza”, una sequenza di suoni che, secondo gli inquirenti, sarebbe “riconducibile agli istanti dell’aggressione”. Si udirebbe, nel brusio, anche “una voce femminile”. Quell’audio, oggi, è tutt’altro che una prova regina: “sarà oggetto di nuova perizia tecnica disposta dalla Corte d’Assise”, segno che la sua interpretazione è ancora materia aperta, fragile, scivolosa.
Poi c’è il contorno umano. “Saranno sentiti i testimoni, riconducibili alla cerchia ristretta di familiari e vicini di casa della vittima”. Ma Palmegiani suggerisce altro: “Non si esclude che uno di questi soggetti possa essere successivamente coinvolto nel procedimento in qualità di imputato.” La stanza non è chiusa come sembra, forse. O, almeno, le chiavi non sono così poche.
E la scena del crimine? Qui si apre una ferita che pesa su tutto il processo: “Purtroppo un capello che fuoriusciva dalla bocca della vittima, visibile nelle fotografie anche dell’autopsia, non venne repertato e scomparve.” Un dettaglio, forse, ma in questi casi i dettagli possono cambiare il corso della storia.

Cos’è allora il “delitto della stanza chiusa” e perché tutto si complica? È il caso perfetto per la letteratura poliziesca e il peggiore per la giustizia: nessuna via d’uscita, se non per chi si trova già dentro. Ma il rischio – come suggerisce la stessa logica dell’esclusione – è che si cada nella trappola della soluzione più semplice, sacrificando la verità sull’altare della probabilità.
Resta il dubbio, che è il vero protagonista. L’audio sarà davvero risolutivo? I testimoni, in un gioco di specchi, nascondono altro? E il capello, disperso e dimenticato, avrebbe potuto cambiare il destino di un uomo? Il processo a Louis Dassilva non promette risposte semplici. Ma promette, forse, di svelare quanto sia fragile il confine tra colpa e possibilità.
