Quattro giorni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, in una caserma dei carabinieri, due ragazzi parlano. Sono Alberto Stasi, il fidanzato della vittima (poi condannato in via definitiva a 16 anni), e Stefania Cappa, la gemella cugina di Chiara. Sono lì per testimoniare. Sono scossi, ma lucidi. E soprattutto, forse, inconsapevolmente rivelatori. Una telecamera li riprende mentre, in attesa degli inquirenti, chiacchierano dell’unica cosa di cui si può parlare, in quel momento: cosa è successo a Chiara? Alberto ipotizza: «Qualcuno è entrato e lei si è spaventata». Stefania risponde, quasi di getto: «Ma alle 9.30?». Lui si schermisce: «Non lo so a che ora». Una battuta. Un dettaglio. Eppure, a riguardarlo oggi — come ha fatto Chi l’ha visto? — quel “alle 9.30?” suona quasi come un lapsus rivelatore. Perché all’epoca, l’orario della morte, non era ancora stato definito. Gli investigatori parlavano di una fascia larga, tra le 10.30 e mezzogiorno. Solo anni dopo, grazie a una super-perizia, si scoprirà che Chiara è morta tra le 9.12 e le 9.35. Esattamente quando diceva (senza dire) Stefania Cappa.


Coincidenza? Istinto? O qualcosa di più? Per Antonio De Rensis, avvocato di Alberto Stasi, non è affatto un dettaglio da archiviare. Intervistato da Mattino 5, ha detto: «È un peccato che gli investigatori non abbiano seguito questa intuizione geniale. Se avessero dato peso a quell’orario, forse avrebbero risolto il caso molto prima». Intanto, con la riapertura dell’indagine da parte della procura di Pavia, il caso Garlasco torna a farsi magma. Si scandagliano di nuovo 78 impronte lasciate sul luogo del delitto, si tirano fuori vecchie intercettazioni, si analizzano chiavette USB dimenticate, come quella di Chiara Poggi, dove – due mesi prima della sua morte – era stato salvato un file sulla pedofilia. “Aveva scoperto un giro”, dice qualcuno. Forse suggestione. Forse un’altra verità sotterrata. Nel frattempo, 17 anni dopo, si continua a cercare il perché. E soprattutto il chi.

