In paese, quando i Sempio incrociano i Poggi al supermercato, scatta l’abbraccio. Ma il resto del mondo si sposta di lato, come se bastasse quell’incontro a contaminare l’aria. È un riflesso condizionato, quello di chi guarda una storia dall’esterno ma ha già deciso tutto: chi è buono, chi è colpevole, chi è scomodo. Andrea Sempio, per qualcuno, è ancora quello lì. Quello che “forse l’ha fatto”. Quello indagato, di nuovo, per il delitto di Chiara Poggi. Siamo nel 2025 e chi si aspettava di risentire parlare del nome “Andrea Sempio” accostato a Garlasco? Nessuno. Ma il 27 febbraio scorso è arrivato un nuovo colpo di scena. Indagato in concorso con Alberto Stasi. Il ritorno di un fantasma che da diciassette anni non lascia tregua. Giuseppe Sempio, il padre, ha 72 anni e la memoria ancora precisa. Il 13 agosto 2007 per lui è come una cicatrice incisa in automatico, un marchio. “Faceva un caldo che non si respirava. Andrea era sveglio. Voleva andare in libreria, come al solito”. Non era un giorno straordinario, almeno fino a un certo orario. C’erano telecomandi del cancello rotti, commissioni, una spesa, la madre Daniela che rientra alle 9:50 (lo ricorda con la puntualità di un orologio da cucina), e Andrea che prende le chiavi e va a Vigevano. Dove però la Feltrinelli è chiusa. Perché è il 13 agosto, e anche i libri si prendono una pausa. Ma Andrea ci prova lo stesso. Perché, a detta di chi lo conosce, i libri sono la sua droga legale. Mille volumi, di tutto. Psicologia, economia, politica. Non ha la tv in camera, non ne vuole sapere. “Ancora oggi gli sto facendo le scaffalature per sistemare tutto”, racconta il padre. Studiare gli piaceva, ma l’università no, perché a volte il merito non basta: ci vogliono anche soldi, tempo, supporto. E quello non c’era.

C’erano però altre cose: appunti scritti, voci sussurrate sotto la doccia, pensieri buttati tra le pagine o in un cestino. Frasi del tipo: “Ho fatto cose talmente brutte che nessuno può immaginare”. Che i giornali hanno rilanciato a raffica. Che il padre nega di aver mai letto. Ma riconosce: “Scriveva ovunque. Anche sui libri”. La verità è che chi parla da solo in bagno fa notizia solo quando finisce sotto indagine. “Ha sempre fatto così”, dice Giuseppe. “Sotto la doccia, si parlava addosso. Ancora oggi”. Niente messe nere, niente oratori: “Mio figlio in chiesa non ci metteva piede, è uno come me”. Tra i pezzi del puzzle, c’è anche lo scontrino del parcheggio. Quello che potrebbe dire qualcosa. Andrea dice di essere andato in libreria, e forse il biglietto può confermarlo. Lo trovano settimane dopo, mentre svuotano la macchina piena di cartacce. Non lo portano subito ai carabinieri. Ma lui lo tira fuori quando glielo chiedono, durante un interrogatorio. O almeno, così dicono loro. Ma nei verbali non si trova scritto nulla. Misteri della burocrazia. Dopo il tentativo fallito in libreria, Andrea va a trovare la nonna. Poi rientra a pranzo. La madre alle 13 va al lavoro. Andrea e il padre tornano dalla nonna a prendere bottiglie di salsa. Un agosto normale. Finché non passano per via Pascoli. Transenne, carabinieri, Croce Rossa. “Pensavamo a un malore. Poi un vigile mi dice: ‘È stata uccisa la Poggi’. Mio figlio è impallidito”. A pochi metri, l’orrore. E l’inizio di un’ombra lunga 17 anni. Chiara Poggi Andrea non la conosceva bene. Ma Marco sì. Amici dalle elementari. Si sentono ancora, dice il padre. Nessun allontanamento, nessuna rottura. Ma anche nessuna pace. Nel frattempo, la madre – Daniela – non parla più. Ma quando le scappa qualcosa, non fa giri di parole. “L’hanno già condannato. Ma mio figlio non ha ammazzato Chiara Poggi. Ne sono sicura al mille per cento”. Lo scontrino. La cella telefonica. Le voci. I dubbi. I silenzi. Le troppe verità. I troppi anni. E ora? C’è un’indagine aperta. Ma nessuno sa se ci sarà un processo. La madre, stavolta, quasi spera di sì. “Meglio una sentenza. Un punto. Perché ho paura che non finisca mai. Che tra sette anni si svegli un altro testimone. Che non ci lascino in pace”.
