In un’epoca in cui l’economia globale assomiglia sempre più a una scacchiera agitata da mani invisibili, Andrea Orcel, ceo di UniCredit, si esprime – con la consueta calma chirurgica – su temi che intrecciano dazi di Donald Trump, mercati e imprese italiane. In un video diffuso da Ansa, l’ad della banca commenta il clima da “fine del libero scambio” con parole che suonano come una diagnosi storica più che una semplice previsione finanziaria: “Questa è fondamentalmente la reazione maggiore al libero mercato sul trade da più di 100 anni, quindi si sta ridefinendo un nuovo equilibrio economico, vediamo come va a finire”.
Tradotto: il protezionismo, quella tentazione ancestrale dei governi di chiudersi a riccio quando l’incertezza globale si fa insostenibile, torna di moda. Ma non è solo una moda: è uno tsunami che rischia di riscrivere regole, priorità e alleanze economiche. Quanto questi dazi possano essere nocivi, continua Orcel, “è prematuro per dirlo, ci sono impatti negativi, altri impatti sono positivi, l’Europa probabilmente ne risentirà meno degli Stati Uniti”.
Un equilibrio nuovo, dunque, ma ancora incerto. E l’Italia? Nel cuore di questa mutazione geoeconomica, la nostra penisola cerca il suo ruolo, con uno dei suoi settori simbolo: il vino. A Vinitaly 2025, UniCredit ha presentato, in collaborazione con Nomisma, un osservatorio dedicato proprio all’oro rosso del Made in Italy. E i numeri, almeno finora, brillano: “Il 2024 è stato un anno positivo per il vino italiano, con esportazioni che hanno superato la barriera degli 8 miliardi di euro”, spiega Orcel in un’intervista rilasciata a L’Arena.

Dietro questi risultati, però, non c’è solo l’aroma del successo: c’è una strategia. Perché l’“incertezza regolamentare globale” – che per il lettore non specialista si traduce in norme ballerine, dazi improvvisi, e tensioni internazionali – costringe le aziende a diversificare, ovvero a cercare mercati alternativi, nuovi sbocchi, nuove alleanze. UniCredit, qui, gioca il suo asso: una rete in 12 Paesi europei e finanziamenti in aumento dell’11%, per oltre 220 milioni di euro in nuove erogazioni.
Ma il colpo di teatro è altrove, sul fronte bancario: l’offerta pubblica di scambio (Ops) lanciata da UniCredit su Banco Bpm. Un’operazione che, nel panorama italiano, suona come un terremoto silenzioso. L’assemblea ha dato il suo placet con un eloquente 99,88% dei voti favorevoli, ma Orcel non abbassa la guardia: “Valuteremo comunque con la dovuta attenzione […] e decideremo se proseguire o meno nell’operazione”.

Non è solo questione di numeri, è questione di visione. Perché, sottolinea Orcel, “Banco Bpm è una banca complementare, non c’è praticamente sovrapposizione nella rete”, il che vuol dire che l’acquisizione – almeno secondo UniCredit – non taglierà sportelli né posti di lavoro. Anzi: “Potrà essere potenziata con investimenti analoghi a quelli realizzati sul network UniCredit”, promette il CEO, parlando di una rete paneuropea, di eccellenza nei servizi, e di supporto alle PMI.
E qui l’uomo d’affari cede il passo al banchiere-costruttore: “Sosteniamo il tessuto produttivo e le comunità locali e continueremo a farlo con sempre maggiore forza”. I numeri non mentono: nei primi due mesi del 2025, UniCredit ha erogato 2,8 miliardi alle PMI italiane, un balzo del +47% rispetto all’anno precedente, che già si era chiuso con 12 miliardi di credito garantito.
In un mondo in cui le certezze economiche si sgretolano come castelli di sabbia sotto un vento di guerra commerciale, Orcel lancia un messaggio tutt’altro che scontato: le banche possono essere – devono essere – parte della soluzione. Non basta più finanziare: occorre accompagnare, capire, prevedere. E, ogni tanto, alzare lo sguardo oltre il bilancio trimestrale.
In un’epoca di protezionismi rampanti e vinificatori globali, tra operazioni bancarie e baroli esportati in Cina, la bussola si chiama ancora strategia. Ma il vero orizzonte è la fiducia. E, per ora, Orcel sembra avere il vento in poppa.