Una delle cose che sta facendo emergere il conflitto cui tutti noi stiamo assistendo (nella versione cinematografica e sceneggiata che ce ne offrono) è la totale ottusità di alcune persone che, probabilmente, esisteva anche prima ma che ora emerge in tutto il suo splendore. I Russi, in questo dramma anche mediatico, sono “i brutti e i cattivi” e quelli che lanciano missili, sparano ai civili e torturano a destra e a manca siano “brutti e cattivi” non si discute. Lasciando perdere la figura di palta di Roberto Saviano che pubblica su Twitter un post strappalacrime contro i Russi allegando la foto di un bambino mutilato (e già qui ci sarebbe da discutere) che, però, è una foto del 2015 ed è la foto di un bimbo mutilato da bombe ucraine (ma non era uno scrittore d’inchiesta, Saviano?), ottusità e idiozia compaiono ovunque.
Ad esempio a Milano. Che l’Università Bicocca di Milano, appunto, blocchi un corso su Dostoevskij in quanto russo, beh: ottusità è un termine elegante che utilizzo per evitarmi una denuncia (corso poi, dopo le proteste, ripristinato, anche se il docente Paolo Nori, giustamente, ha risposto picche e si farà il suo corso altrove). E che alcune tv ucraine non trasmettano la Via Crucis di Papa Francesco solo perché il suo ufficio marketing ha deciso di far portare la Croce, alla XIII tappa, da una donna ucraina e da una donna russa, a simboleggiare la pace e la riconciliazione fra i due popoli, è espressione di altrettanta ottusità.
Che c’entrano due povere criste (è il caso di dirlo) coinvolte in un’operazione teatrale con quello che sta succedendo? Cos’è, non si può più rivolgere la parola a un russo, adesso? Non si può più parlare di autori russi? Papa Francesco ha fatto bene: non credo serva a una mazza organizzare uno spettacolo del genere, ma certamente la sua messa in scena un senso ce l’ha: a livello simbolico, per chi basa la sua conoscenza del mondo su quel che vede ai telegiornali o su quel che dice un Povia di turno, è una immagine molto forte, probabilmente lenitiva di quel disagio che si sperimenta pensando che Putin potrebbe far partire qualche missile nucleare alla nostra volta e che Biden è talmente rincoglionito che stringe le mani ai fantasmi in diretta tv, facendo rabbrividire il mondo (può una persona con tali vuoti mentali avere attaccata al polso la valigetta che contiene i codici che possono scatenare una guerra nucleare? Chiedo per il solito amico, ovviamente). Papa Francesco, in questa vicenda, si sta comportando, dal punto di vista della comunicazione, bene (dopo le gaffe su genitori, figli e animali e dopo le gaffe sul diritto all’eutanasia).
O meglio, dal punto di vista formale, si sta comportando bene: usa le parole giuste e usa le metafore giuste anche se, giustamente dal suo punto di vista, insiste con i richiami a Dio che certamente calmano i fedeli ma, dal punto di vista pratico, non servono a niente e, anzi, deresponsabilizzano le persone dal fare qualcosa di concreto per risolvere le cose. E non è, si badi, una questione di antipatia o simpatia per il Papa o per la Religione che rappresenta. È una questione linguistica. Ma parliamo, per iniziare, di quel che sta facendo bene, che già sono tacciato di essere troppo critico con il mondo cattolico e non voglio quindi gettare benzina sul fuoco.
Quali sono le cose buone che fa Papa Francesco, quindi? Usa alla grande tutto il pacchetto di base, con il linguaggio che fa presa sull’animo emotivo di chi lo ascolta senza provocare scombussolamenti di sorta: “Mettiamoci davanti al Crocifisso, sorgente della nostra pace, e chiediamogli la pace del cuore e la pace nel mondo”. Pace, Cuore e Mondo: perfetto. E poi: dialogo, negoziato, ascolto. Queste sono le parole che ricorrono più spesso, e fanno quel che devono fare. Pezzo forte è l’utilizzo da parte del Pontefice di un vocabolario metaforico che bilancia perfettamente i termini bellici. Chiede, per esempio, che gli “avversari” si “stringano la mano” e “gustino il perdono”: usare metafore legate al corpo (“gustare”, ad esempio), è brillante. “Dove c’è l’odio”, dice, “fiorisca la concordia”: una metafora legata alla Natura che evoca immagini rilassanti in un contesto in cui non ce ne sono: brillante, davvero.
Discorsi del genere sono perfettamente bilanciati: da un lato, parole e metafore che stimolano paura e cortisolo (“avversari”, “guerra”, “odio”, “la guerra è una pazzia, la guerra è un mostro, la guerra è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto!”) e, a compensare, parole e metafore che rilassano e favoriscono la produzione di sostanze benefiche, come endorfine e serotonina (“gustare”, “fiorire”). È un pattern, e applausi a chi ha scritto i suoi speech. Eccellente anche nei suoi richiami al fatto che esistono altre guerre, e che esistono (è vero) rifugiati di serie A e di serie B: tutte cose vere, che vanno dette, e che dichiarano una visione intellettualmente onesta di quel che capita nel mondo.
Bravo, anche per questo: non tutti ne parlano, e lui ha fatto bene. Il solito grande limite, invece, è quello del continuo deresponsabilizzare atti che sono e dovrebbero essere tipicamente umane e che vengono delegati a forze esterne. Senza in alcun modo mancare di rispetto alla fede di ognuno, resta il dato linguistico: “che il Signore porti la pace” è una frase pericolosa perché, alla fine, saranno gli uomini a portarla (speriamo) e far credere che questa cosa arrivi dall’alto… beh: è lenitiva per gli animi ma assai poco concreta. “Chiediamo la pace alla Croce”, come sopra. Parliamoci chiaro: senza (ripeto) nulla togliere alle questioni di fede, la storia ci insegna che sono le persone a far le cose, nel bene e nel male e che Dio (nella versione che preferite) non interviene, mai, nelle faccende umane: pestilenze, fame nel mondo, guerre millenarie… avete presente? Ecco. Se c’è una possibilità di cambiare le cose, non è chiudendo gli occhi davanti alle nostre responsabilità sperando che dall’alto arrivi qualcuno a far qualcosa: dobbiamo tirarci su le maniche, andare a caricare pacchi sui pullman e alzare la voce finché le cose non cambiano.