Beppe Sala mi odia. Sì, è ormai chiaro che il sindaco di Milano mi odia. Toh, magari non è proprio odio odio. Diciamo che gli sto sul cazzo. Come magari ci capita con qualche nostro vicino, quello che lascia sempre aperta la porta del cortile, inconsapevole che lasciando aperta quella è come se lasciasse aperto il portone, ladri, prego accomodatevi pure. E così, se lo vedete che come voi si sta aggirando per le strade della zona alla ricerca di un parcheggio, altro modo in cui Beppe Sala esterna il suo odio per me, e ne trovate uno nel quale potreste entrare comodamente entrambi, ecco, lasciate la macchina quei pochi centimetri scostati dalla macchina davanti così che lui non c’entri, e quando si sta avvicinandovi, facendo la faccia di chi vi vuole chiedere la cortesia di tornare indietro a aggiustare il vostro parcheggio, tirate fuori il telefono dalla tasca e fate finta di parlarci, facendo a vostra volta la faccia di chi dice “mi spiace, ho da fare”, ma che in realtà grida a gran voce “impara a chiudere la porta del cortile, pirla”. Ecco, credo di stare sul cazzo a Beppe Sala esattamente in quel modo lì. Altrimenti non si spiegano tutte quelle vessazioni, ben più vessazioni del fregarmi un parcheggio, cui mi sta sottoponendo in questo primo mese dal rientro dalle vacanze. Detto che evidentemente non gli sto sul cazzo pure io, ma anche buona parte dei miei concittadini, gente che a dirla tutta lo deve pure aver votato, visto è che è diventato sindaco.
Perché passi questa visione finto-green per cui le auto non devono più circolare, abbiamo da tempo capito che in realtà è più un greenwashing atto a bonificare intere parti della città, per poi svenderle agli immobiliaristi che potranno costruirci nuovi palazzi, grattacieli, quel che è. Tutta quella faccenda del togliere parcheggi ovunque, lasciando anche spazio ai gazebo e i bersò di bar e ristoranti, le panchine e i tavoli da picnic, se non addirittura da ping pong, che spuntano ovunque, interi tratti di strada dedicati al passeggio, anche in zone dove la gente a passeggio non ci va perché non c’è niente da fare, è tutto parte di un ridisegno di Milano che vive solo nel boschetto della sua fantasia, un boschetto verticale immagino. Ok. Anche l’aggiungere l’Area B all’Area C, rendendo Milano inaccessibile a un numero incredibile di pendolari, gente che evidentemente la macchina elettrica o all’ultimo modello non se la può permettere, il tutto di pari passo con l’aumento dei biglietti dei mezzi, mezzi che spesso, visto i quattromila cantieri presenti in città, cambiano di continuo percorso, lasciando gente a spasso, cantieri per altro quasi mai annunciati a monte, ti ritrovi di fronte una strada chiusa quando ci arrivi a un metro, finendo poi imbottigliato in un ingorgo di quelli che ti fanno imprecare i santi, alla faccia del 30 chilometri tanto evocato a più riprese sempre dalla sua giunta comunale. Questa idea, bislacca, che Milano sia come Londra, ma anche come Amsterdam o una qualsiasi metropoli nordeuropea, tutto è parte di una visione miope, più che lungimirante, ma non è certo per questo che dico di stare sul cazzo a Sala, ormai ci combatto tutti i giorni, con questa deriva qui.
Ho capito in maniera incontrovertibile di stargli profondamente sul cazzo stanotte, dopo per altro averlo sospettato in maniera approssimativamente vicina alla certezza proprio un paio di notti fa, e prima ancora la settimana scorsa. E l’ho capito mentre stavo sveglio a letto, rigirandomi col nervoso senza la minima possibilità di prendere sonno. E anche senza la possibilità di alzarmi, sono ormai in quella fascia di età che non si può permettere di “fare after”, come direbbe un adolescente o comunque un giovanissimo. Se sto in piedi tutta la notte, poi, di giorno sempre uno di quegli zombie cui Negan spaccava la testa colpendola con Lucille, la sua mazza da baseball ricoperta di filo spinato (sui social si può vedere un vecchio servizio fotografico che ho fatto, mi sembra fosse il 2017, prima di andare a Sanremo, nel quale brandisco anche io una mazza da baseball con filo spinato, chiara citazione di Negan, così, tanto per lanciare qualche messaggio).
Succede che stanotte proprio sotto casa mia si è aperto un temporary cantiere. Un temporary cantiere che aveva già aperto anche nel fine settimana scorsa, puntuale come la varicella in tarda primavera. Temporary cantiere. Non so come si chiamano quei cantieri che spuntano alle luci del tramonto, vanno avanti tutta la notte e la mattina lasciano come traccia di sé giusto un a passata di asfalto e il sistema nervoso a pezzi dei cittadini della zona, ma abitando a Milano suppongo che non sarà mancato qualcuno che gli avrà dato un nome sufficientemente del cazzo come i temporary shop, che sarebbero quei negozi che aprono e chiudono nel giro di poco vendendo prodotti presi in stock, avanzi di magazzino, quasi sempre sòle vendute sì a prezzi ribassati, ma comunque sòle.
Comunque, stanotte, per il secondo weekend di fila, proprio davanti al portone di casa mia, cioè sotto le finestre della nostra camera da letto, c’era un mostro enorme, bianco, che emetteva un rumore talmente forte da impedirci di parlarci, pur essendo mano nella mano (non è vero, ci capita spesso di passeggiare mano nella mano, ma non eravamo mano nella mano in questo momento, ma era per dire che eravamo vicini, e anche per appoggiare tra le righe una immagine romantica, piacevole, positiva, a contrasto con quella negativa di un mostro che si trova davanti al portone di casa nostra, rumoroso e sferragliante come in una poesia futurista).
Da un paio di settimane, in effetti, le vie circostanti al nostro palazzo, i tratti davanti e di fronte al portone, ma anche quelle che si trovano rispettivamente nei due tratti di strada all’angolo con la piazza, riportavano dei divieti di sosta dalle 00:06 alle 17:00 per tutta questa settimana. Divieti di sosta che hanno sortito i loro effetti, nessuna auto si trovava qui in quegli orari, ma che non aveva visto però alcun tipo di lavoro atto a giustificarli. Erano cartelli che riportavano il logo delle metropolitane, che a Milano gestiscono anche l’acquedotto, ma di operai se ne erano visti zero. E per fortuna, perché di fronte al nostro palazzo, già sapete, c’è un cantiere che andrà avanti per due anni, hanno buttato giù un garage e costruiranno un palazzo di sette piani, ora stanno predisponendo le fondamenta, raschiando, scavando, togliendo piloni di cemento, facendo un casino e tanta polvere e fango da rendere la via, residenziale, piuttosto simile a come ricordo di aver visto la periferia di Città del Guatemala. Quindi rumori incessanti, tapparelle tirate giù e scossoni manco fossimo nel mezzo di un terremoto, di giorno, più il traffico impazzito per un cantiere gigantesco, non indicato, qualche via più in là, fatto che fa convergere qui sotto le auto di tutta questa area di Milano, ve l’ho detto che sto sul cazzo a Beppe Sala, e adesso una macchina infernale che fa un rumore insopportabile, tremendo. C’è questo camion con sulla parte posteriore una sorta di grande sacca, simile al corpo di un’ape o una vespa, la medesima forma, totalmente bianco, infilato dentro un tombino posto proprio all’imbocco della via. La sacca è gonfia, non saprei dire di cosa, e tanto per dirla tutta, non voglio proprio sapere di cosa, e sopra il camion si vedono dei tubi, tanti tubi, e un motore che è la fonte di quel fracasso. Seduti sul marciapiede, lì vicino, ci sono quattro operai con le divise fluo gialle. Tre da una parte, uno da solo da un’altra. Quello da solo, ma questo è un dettaglio che infilo qui tendenziosamente, perché deve essere chiaro a chiunque legga le mie parole come quella macchina sia l’incarnazione del male, sempre che una macchina possa essere incarnazione di alcunché, quello da solo è l’unico di colore, toh, l’ho detto.
Piccolo passo indietro. Una decina di giorni fa siamo andati a letto, io e Marina, come sempre intorno a mezzanotte. Ci siamo visti l’undicesima puntata della terza stagione di Mare Fuori, con colpevole ritardo, ma d’estate non guardiamo la tv e comunque non è che dedichiamo alla visione comune di serie poi tutto questo tempo, un’oretta la sera tardi, neanche tutti i giorni, e queste di Mare Fuori, che ci è molto piaciuta, le stiamo centellinando, consapevoli che la quarta stagione chissà quando arriverà. Siamo andati a letto verso mezzanotte, abbiamo spento le luci e, come in un incubo, incubo che però trovava me ancora sveglio, come vi dicevo prima, Marina dorme con una facilità che le ho sempre invidiato, io soffro da sempre di insonnia, abbiamo spento le luci e come in un incubo è partito il rumore squassante di un martello pneumatico. Mettetevi nei miei panni. Oversize. Lavoro buona parte del giorno in casa, in questo lato della casa dove si trova la nostra camera da letto, lo studio, che però è quasi sempre usato da Marina come ufficio, visto che passa parte della settimana in smart working, lei lavora per una multinazionale che in effetti è per la sostenibilità ambientale, quindi non chiede inutilmente ai dipendenti di mettersi sui mezzi e andare in un ufficio che adesso il venerdì rimane addirittura chiuso di default, e la sala. Il resto della casa affacciata altrove. Qui sotto c’è il cantiere per il palazzo in costruzione, quindi io lavoro tutto il giorno col rumore dei martelli pneumatici, delle escavatrici e di tutte quelle macchine infernali che rompono blocchi di cemento e li sollevano, per metterli dentro camion sbuffanti. Insomma, lavoro da un mese dentro un caos futurista. Ho prova provata di quanto l’inquinamento acustico, che già è ben presente, perché la sala, dove spesso mi trovo a lavorare proprio a causa dell’essersi impossessata dello studio da parte di Marina, quello che doveva essere il mio ufficio, la sala affaccia anche sulla piazza che ho più volte citato, attraversata da una delle vie più trafficate di Milano, in questi giorni molto più trafficata del solito, i vigili costantemente presenti per provare a fare qualcosa, spesso danni. Sentire i medesimi rumori di notte, quando per altro il rumore del traffico si affievolisce, quindi qualsiasi rumore sembra molto più potente, mi ha devastato psicologicamente. Sulle prime ho pensato fossero quelli del palazzo in costruzione. Ho tirato su le tapparelle, che ormai stanno su solo la mattina quando rifacciamo la camera e dopo le 17, quando il cantiere chiude, salvo poi scendere di nuovo alle 20, ché arriva la notte, maledetti cantieri, invece era tutto spento. Ho però visto che a neanche cento metri da noi, visibile ma soprattutto udibile, c’era questo nuovo cantiere, con gli operai che distruggevano un marciapiedi a suon, è il caso di dirlo, martello pneumatico. Sono impazzito, e sono rimasto in questo stato di scoramento fino alle quattro, quando hanno smesso. Notte andata a puttane, ovviamente, la sveglia suona alle sei e quaranta. Stanotte le cose sembrano ancora peggio, perché il caos è proprio sotto le nostre finestre, davanti al nostro portone. Un caos per altro molto più potente di un martello pneumatico, un rombo come di un aereo che sia per partire. Gli operai, tutti e quattro, anche quello isolato di colore, lo so, sto continuando con questa pantomima, hanno quei paraorecchi rigidi atti proprio a non farli diventare sordi, sempre che quei paraorecchi servano in effetti a qualcosa.
Vado in bagno, anche quello con finestre che danno sulla via sottostante, tiro su la tapparella e faccio qualche foto e anche un video, perché si senta il fracasso, foto e video che non vedrò mai più, ma che al momento mi sembrano fondamentali, poi passo il resto della notte sveglio, a sentire il casino senza possibilità di addormentarmi. Fino alle cinque passate. Poi evidentemente il lavoro è finito e stamattina di quel che è successo rimane come traccia un tombino circondato da una sorta di staccionata di quelle coperte di plastica rossa, così che le auto non lo calpestino passando. Esattamente come nel weekend scorso.
Marina, che è un po’ diversa da me di carattere, come si dice in questi casi, insieme ci compensiamo da oltre trentacinque anni, e che come ho già detto non ha poi problemi a prendere sonno, dice che “questo è il segno della ripartenza, cantieri su cantieri perché siamo stati fermi per la pandemia”. Romanticamente futurista, Marina.
Credo che il mio fare video e foto sia frutto dei ventisei anni passati a Milano, non trovo razionalmente altra spiegazione. Quando sono stanco mi trovo, a volte, a ragionare come fossi nato qui, anche se, vi prego, semmai dovessi mettere un articolo prima di un nome proprio abbattetemi, sarei a quel punto incurabile. Le ho scattate e l’ho girato, immagino, pensando poi di spedirle al Comune, via mail, protestando sentitamente per il disagio, o magari al Corriere della Sera, per una lettera che spero venga pubblicata nella apposita sezione.
Qui funziona così. La gente si sente di protestare in maniera civile, perché rivendica una civiltà che ritiene sia fondamentale, e che per altro non trova residenza altrove, men che meno sotto il Rubicone. Quindi, per dire, se subisce un torto, di quelli che ti manderebbero fuori di testa ovunque, qui prende carta e penna e scrive una mail al Corriere di sentita protesta, o all’amministratore del palazzo, o a chicchessia. Non alza la voce, non alza neanche le mani, e ci mancherebbe pure, protesta mandando mail o lettere e infatti la prende puntualmente nel culo.
Racconto sempre, quando mi ritrovo a fare il gigione in compagnia, accentrando sulla mia arte oratoria l’attenzione degli astanti, questi due episodi, buttati lì, in mezzo al discorso, per allestire un paragone, e per far capire lo shock che ho provato e provo dovendomi confrontare quotidianamente con questo alieno modo di fare.
Anni fa, intorno al 2000, Nanni Moretti si è trovato a girare un suo film, il primo tragico e nel quale l’autobiografismo non trovava spazio nella trama, in Ancona. A Roma c’era il Giubileo, impossibile chiedere di fermare traffico o altro per girare un film. Ancona, invece, lo ha accolto come fosse Dio, traffico modificato, tutti al suo servizio, spesso anche a fare comparse o altro nella pellicola in questione, La stanza del figlio. Ai tempi ovviamente Moretti non l’ha detto, paraculo, ma mentre lì tutti si vantavano della sua scelta, ipotizzando, giuro, che Ancona sarebbe diventata famosissima in tutta Italia e forse addirittura una nuova Hollywood, ma la scelta era ricaduta sulla mia città natale per due motivi specifici, serviva un posto che avesse il mare, per una questione legata alla trama che, nonostante sia film vecchio non vi spoilero, e perché serviva un posto neutro, irriconoscibile, Ancona, appunto. Ancona che non verrà mai citata come tale nella pellicola, per dire, alla faccia della fama. Comunque per quasi due anni tutti sono stati carinissimi, servizievoli, grati. Moretti ha chiesto di poter avere a disposizione parcheggi e spazi altrimenti adibiti ai cittadini e ai venditori ambulanti, i cosiddetti “bancarellari”, che ai tempi occupavano una porzione importante di uno dei tre corsi principali cittadini, corso Mazzini, e così è stato. Ha chiesto di chiudere al traffico per giorni e giorni il viale, nel film diventato viale della Vittoria, come da toponomastica, ma nessuno lì lo chiama così, e questo ha ottenuto. Poi un giorno la gente si deve essere rotta le palle. Così succede che il camion della produzione arrivi in piazza Cavour, il palazzo dove si svolge parte della scena sta lì, su una stradina a due passi, ha preso la curva e in quello che fino al giorno prima era il parcheggio che il Comune gli aveva generosamente adibito ha trovato parcheggiato un paio di camioncini dei “bancarellari”. Il camionista, romano, è sceso dal camion con aria strafottente, dettaglio che nulla cambia nella narrazione, ha sguaiatamente fatto notare che c’era un divieto di sosta, e per risposta ha ottenuto un cazzotto in faccia che gli ha, citazione dovuta, frantumato le mucose, il sangue a ettolitri. Così è salito sul camion e se n’è andato, fine delle registrazioni, il film può andare al montaggio.
Un modo magari non civilissimo di risolvere certe questioni, ma indubbiamente efficace. E comunque il solo applicabile in certe latitudini.
La scena si sposta a Milano, in quello che fino a cinque anni fa era il mio palazzo, ma siamo molto più indietro nel tempo. Siamo vissuti lì, a poche centinaia di metri dal palazzo dove per altro viviamo ora, dal 2006 al 2018, un bel lasso di tempo. Una palazzina bassa, due piani, con due famiglie a piano terra, due al primo piano, e tre al secondo, dove abitavamo noi. Più un paio di monolocali con accesso sul cortile. Un cortile molto vissuto, i bambini, compresi i nostri, che ci giocavano, i condomini che ci si ritrovavano a fare chiacchiere. L’assenza di ascensore, poi, a rendere il tutto molto familiare, se ti incontri dieci volte al giorno non ci metti molto a rompere il ghiaccio, a meno che tu non sia un asociale. Un contesto delizioso, che non avrei mai lasciato se l’appartamento non ci fosse divenuto stretto, siamo in sei, mi capirete.
Comunque, in uno degli appartamenti del primo piano, ingresso proprio nell’atrio, un portone dorato che non si poteva non notare, a ogni solstizio, quindi quattro volte l’anno, si teneva e si tiene una festa. Una festa grande, con decine e decine di partecipanti, ognuno porta qualcosa da mangiare e da bere, il padrone di casa, Riccardo, a mettere musica molto anni Ottanta, ma roba pure ricercata, dai Wall of Voodoo ai The Cult, a fianco di roba un filo meno ricercata, Raffaella Carrà e affini. Una festa che comincia intorno alle dieci e che va avanti fino alle due, le tre di notte. C’è anche una quinta festa, il sabato di carnevale. Cinque feste così ogni anno. Ora, io abitavo al secondo piano, quindi tra me e la festa c’era un appartamento a fare da filtro, ma vi giuro che, a letto, distinguevo non solo ogni singola parte musicale del brano che lo stereo stava sparando, ma anche tutte le parole del medesimo. Sembrava di dormire sopra lo stereo, le pareti di casa a tremare per i bassi. La prima volta sono come impazzito, meravigliato. Poi ho aspettato che qualcuno del palazzo, o anche dei palazzi vicini, il nostro cortile confinava con un altro assai più grande, ci saranno state tra tutto una trentina di famiglie, dando alla parola famiglia la massima interpretazione possibile, affacciate lì. Invece niente. Aspetta e aspetta e arrivano le tre, i saluti, la musica finisce e si può dormire. Uno shock, ma tutto sommato una volta la si può pur far passare liscia. Una volta a solstizio, però. Questo avremmo scoperto poco dopo. E ogni volta, giuro, Marina mi ha fermato mentre, in pigiama, mi incamminavo verso la porta di casa e poi le scale e poi la porta dorata con la faccia del Michael Douglas del film Un giorno di ordinaria follia, la mazza da baseball di cui sopra in mano, pronto a farmi giustizia da sola. Lei lì a dirmi, “Ma se non protestano quelli di sotto, perché devi farlo tu, poi cosa diranno di noi?”. Cosa diranno di noi. Uno scende, pacatamente, a far notare che sono le due di notte e sembra di essere sotto il palco del Tomorrowland e il problema è cosa la gente penserà di lui. Civiltà, direbbe un milanese. Mollezza, penso io. Di fatto, un anno, diciamo a metà della nostra permanenza in quel palazzo, quando ormai eravamo diventati piuttosto stretti con Riccardo, ci ha invitato alla festa, di colpo azzerando ogni possibilità poi di protestare, anche se avessimo deciso di non prendervi parte, come per dire la famiglia del primo piano, che a differenza di buona parte dei condomini, tranne la signora anziana sempre al primo piano, ha preso a partecipare. Quindi ci siamo andati, ci siamo divertiti parecchio e la questione è finita lì, ma a Milano, inviti o meno alle feste, funziona così, ci si arrabbia, qui direbbero indigna, e si scrive una lettera all’amministratore del palazzo, che nel mentre ti sta fregando il fregabile ingigantendo le spese. O si scrive al Corriere della Sera. In Ancona si passa alle maniere di fatto, respingendo il problema a mani nude.
Vivo a Milano da ventisei anni. Ci sono alcune caratteristiche dei milanesi che facevano parte del mio modo di fare e di essere anche quando vivevo in Ancona, la puntualità, una certa dedizione al lavoro, l’ordine mentre si guida (lo so che pensate che il traffico di Milano sia caotico, ma in realtà sarebbe molto ordinato, non fosse per la gestione folle del Comune). Mi sento in esilio, perché sono partito per mancanza di alternativa, ma ho scelto poi di rimanere. Ma vi giuro che se anche la settimana prossima di notte dovesse esserci un cantiere in zona andrò all’armadio e tirerò fuori la mazza da baseball del servizio fotografico alla Negan, scenderò a piedi le scale canticchiando Push It dei Garbage “This is the noise that keeps me awake, my head explodes and my body aches”, e a quel punto tornerò anconetano come mai sono stato prima, uomo avvisato.