I miei nonni paterni, Mario e Emma, sono nati rispettivamente nel 1897 e 1900. Mio nonno Mario ha fatto la prima guerra mondiale, da ragazzino, arruolato negli Arditi, repubblicano agli ordini del Re, questo prima di scontrarsi col regime fascista, storia vecchia che ho già raccontato altre volte. Quando li ho conosciuti io, quando cioè ho coscienza di averli conosciuti, loro avranno sicuramente conosciuto me quando sono nato, vivevano in una strada di una zona di Ancona ultimamente diventata oggetto di non poche polemiche, “il Piano”, una sorta di kasbah in una città evidentemente poco abituata all’accoglienza. Ai tempi, parlo degli anni Settanta, anche della prima metà degli anni Ottanta, poi sono morti, quella era una zona tutta italiana, come anche il resto della mia città natale, e dalla loro finestra, affacciata su via Torresi, una striscia di asfalto che portava nella piazza centrale del quartiere, Piazza Ugo Bassi, si vedeva un continuo flusso di auto. Di fronte, attraversata la strada, si trovava il circolo Repubblicano, con campo di bocce annesso. Alle spalle, dove affacciavano le finestre della sala e della loro camera da letto, si trovava Piazza D’Armi, le case popolari simili a quelle che si trovano ancora al Montirozzo, il campo sul quale avrei dato i miei primi calci al pallone in una squadra vera e propria, il Piano San Lazzaro. Le finestre su via Torresi, invece, quelle della cucina e quella di una seconda stanza, inutilizzata, erano quelle che i miei nonni usavano di più, perché a loro, nati rispettivamente alla fine dell’Ottocento e all’alba del nuovo secolo, vedere le auto che passavano, e all’epoca in realtà non è che ne passassero chissà quante, doveva proprio sembrare una cosa incredibile, affascinante. Non c’era volta che non li si andasse a trovare, in famiglia, prima, da solo, poi, che non li trovassi lì, affacciati fianco a fianco a guardare il traffico. Attenzione, traffico di auto, non di persone a piedi, benché ci fossero alcuni negozi, un forno, sotto casa loro un negozio di chiavi, si diceva gestito da un ex scassinatore, di gente a piedi ne circolava sempre poca, di auto, invece, un po’ di più. Sin da piccolo ero affascinato dal loro essere affascinati dal passaggio delle auto, qualcosa che a me, nato alla fine degli anni Sessanta, sembrava assolutamente naturale, per quanto possa essere naturale qualcosa che con la Natura ha poco a che fare. E dire che anche dove abitavo io, ai tempi in pieno centro, o in via Veneto o in quella Piazza Malatesta nella quale erano vissuti loro prima del terremoto del 1972, di auto ne passavano, sì, ma molto meno di adesso (in piazza Malatesta per niente, era una piazza dove si entrava solo se ci si doveva entrare, non di passaggio). Abitavo in centro, quindi di auto ne vedevo sempre, quando uscivo di casa, che c’era mai di così bello da vedere mi sfuggiva. Più avanti avrei scoperto che lo star lì a osservare non osservati, o quasi, ha un fascino tutto suo, film come La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock o Om*cidio a luci rosse di Brian De Palma, il saggio sulla TV di David Foster Wallace a fornirmi materiale a riguardo, ma ne ero incuriosito da piccolo e ne sono rimasto affascinato per buona parte della mia vita. L’ho continuata a pensare così anche una volta che ho cambiato casa e preso la patente, spostatomi in periferia, e anche quando sono arrivato a vivere a Milano.
Il primo appartamento nel quale ho abitato nel capoluogo lombardo era affacciata proprio in un incrocio, quello tra via Vallazze e viale Lombardia, in Città Studi. Lì di auto ne passavano tantissime, stavamo in un monolocale al primo piano, ricordo l’effetto che lo smog ha avuto sui miei capelli era visibile a occhio nudo, di colpo sfibrati e sfiniti. Avevamo un balcone di rimpetto a un residence, nel quale viveva Natalia Estrada, il primo personaggio del mondo dello spettacolo che ho visto fuori da contesti professionali, e al lato opposto della strada, in diagonale, c’era una libreria di testi politici, affiancata a un centro culturale. Una fitta fila di alberi rendeva, e rende tutt’ora, quella strada particolarmente buia, a differenza di quanto invece accadeva e accade in via Vallazze, per cui guardare in quella direzione per osservare le auto non mi è mai parso esercizio interessante. Da lì, poi, mi sono spostato sempre in contesti che mi hanno privato della possibilità di scegliere, prima in via Tadino, parallela della trafficatissima Corso Buenos Aires, le finestre tutte affacciate in un cortile, poi in via della Palazzetta, sempre in zona Città Studi, le finestre o sulla piccola via o su un cortile. Questa faccenda dei cortili, per altro, mi era del tutto estranea, finché non sono venuto a vivere a Milano. Da noi, in Ancona, non ce ne sono, o se ci sono non ne ho mai visti, né dove ho abitato né dove abitavano i miei amici e parenti. Qui, a Milano, invece, ce ne sono tantissimi, e rendono la città meno cementificata di quanto potrebbe apparire camminando per strada, perché dietro le tante facciate dei palazzi ci sono, appunto, cortili e spazi altrettanto aperti. I cortili, poi, vivono di una vita propria, i bambini che giocano, a meno che i condomini e gli amministratori non si oppongano, i saluti e le chiacchiere con i vicini, le voci che rimbalzano, specie nelle sere d’estate, rendendo la privacy un concetto labile, i saluti fatti a distanza con gente che entra in altri portoni e quindi presumibilmente si potrebbe non conoscere mai di persona. Dove vivo ora, sempre in quella fetta di Milano Est/ Nord Est, ho molte finestre, quasi tutte porte finestre che portano su balconi, affacciati su tre differenti lati. Da qui vedo un sacco di auto, oltre che lo skyline nuovo di Milano, i grattacieli di City Life, di Gae Aulenti, il Pirellone a proiettarla verso il futuro, ma vedo anche i monti, una strada decisamente meno trafficata, un piccolo cortile, quello del mio palazzo. Sto al settimo piano, quindi il traffico lo vedo dall’altro, meno rumoroso di quanto non sia da vicino, ma ne vedo parecchio, da una parte le auto incolonnate dirette verso il centro, dall’altra verso la periferia, una piazza a permettere alle auto di imboccare anche le vie laterali. Un traffico costante, che di notte diventa meno invasivo, ma prosegue comunque. Solo nel periodo del lock down ho visto la via deserta, al punto da rimanerne stranito seppur abitassi qui solo da un anno e mezzo.
Quando ero giovane, quando cioè ancora vivevo in Ancona, soffrivo di vertigini. O meglio, l’altezza mi faceva letteralmente paura. Non provavo capogiri o altro, ero terrorizzato all’idea che io o chi si trovasse nei pressi di una sporgenza, un precipizio, anche solo un balcone posto molto in alto, potesse precipitare giù. Quindi me ne tenevo a debita distanza. Quando ero costretto a affacciarmi, perché, per dire, mi trovavo in un luogo turistico come la Tour Eiffel o in montagna, soffrivo non poco, parte di un mio malessere generale che prevedeva anche una specie di attacchi di panico che mi prendeva ogni qualvolta decidessi di uscire di casa. Per dire, non c’era volta che dovessi andare al cinema, o semplicemente uscire con gli amici, che non sentissi un impellente bisogno di andare in bagno, ripetutamente. Come avessi la colite. Anzi, ero convinto fosse colite. Così avevo tutte le tasche dei miei pantaloni pieni di strisce di carta igienica ordinatamente arrotolata, nel caso avessi urgenze mentre ero fuori, e una mia uscita comportava una preparazione degna di una popstar, con un tempo medio di permanenza in bagno non inferiore ai trenta minuti. Non vi dico se dovevo affrontare un viaggio, roba da mettersi le mani nei capelli, che ai tempi erano anche più lunghi di ora. Credo di aver testato i bagni di tutti i locali e i bar della mia città, e a volte mi capitava, quando ero piccolo e rientravo prima dell’arrivo dei miei, parlo di quando ancora non avevo le chiavi di casa, di dover chiedere ai vicini di poter usufruire dei loro bagni. Una vita di merda, per fare una facile battuta, che però andava di pari passo con la faccenda delle vertigini. Poi è successo che la vita mi ha posto di fronte altre priorità, e nel tipico modo che ha la vita di porre le proprie priorità in faccia alla gente, quindi di colpo non ho più avuto attacchi di panico, né vertigini. Certo, non credo camminerei su un cornicione o farei quelle acrobazie che si vedono a volte sui social, di quelli che si lanciano da un palazzo all’altro facendo capriole e altre amenità, anche perché col mio fisico credo che potrei durare poco, o diventare particolarmente famoso. Di fatto ora abito al settimo piano, e ogni tanto mi ritrovo, come i miei nonni nati a ridosso del passaggio tra Ottocento e Novecento, a guardare il traffico lento che si srotola sotto il mio balcone. Una prospettiva singolare, quella da così in alto, che rende il traffico qualcosa di orizzontale, lineare, senza la prospettiva della verticalità, per intendersi, da qui una Smart e un Suv sono alti uguali.
Da qualche giorno, diciamo dall’inizio della settimana in cui sono riprese le scuole, a presidiare l’incrocio tra la via laterale della piazza, quella che proseguendo da accesso proprio alla via nella quale si trova il mio portone, e la strada principale, una delle arterie di Milano, ci sono i vigili. Lasciano sempre l’auto di fronte al mio portone, dove c’è il cantiere di un nuovo residence che vedrà la luce tra due anni, garantendoci quindi mesi e mesi di rotture di coglioni, tra polvere e rumori, poi si piazzano lì, paletta in mano e fischietto in bocca. Tutto intorno, appena visibili tra gli alberi all’interno della piazza, ben riconoscibili sui marciapiedi, una incredibile massa di monopattini e biciclette di quelli che si possono utilizzare scaricando una app e associandoci una carta di credito, lasciati in un disordine pari, se non peggio, di quello delle auto che provano a velocizzare il proprio muoversi in fila indiana, salvo poi rientrare nei ranghi quando si accorgono della presenza dei vigili, lì in mezzo al traffico. Gli alberi, appunto, sono altissimi, arrivano all’altezza del mio balcone, distanziati dalla strada che divide il mio palazzo dalla piazza che li ospita. Alcuni sono caduti durante il temporale simile a un tornado di questa estate, schiacciando auto lasciate lì, esattamente dove in genere lascio la mia. Sono alberi che d’estate ci coprono alla vista dei nostri dirimpettai, dall’altra parte della piazza, svolgendo lo stesso compito con loro, ma che di inverno si spogliano, consentendo alle luci delle loro stanze, le finestre ormai chiuse, di creare una sorta di panorama natalizio, valido anche in autunno e nella prima primavera, quando ancora il verde non è tornato a infoltire i tanti rami. Un giorno, quando eravamo ancora durante il primo lockdown, sotto Pasqua, tutti sono stati invasi da uno stormo di pappagallini verdi, sempre che un insieme di pappagallini si possa chiamare stormo, verdi su verde, irriconoscibili non fosse stato per quel loro urlare così caratteristico. Siamo ancora in estate, gli alberi sono ancora carichi di foglie, come lo sono buona parte delle piante sul mio balcone, almeno tutte quelle sopravvissute a quel tornado che ha divelto gli alberi qui sotto. Se siete tra quanti, bloccati in un qualche ingorgo in autostrada, di quelli che dopo un po’ vi spingono a scendere dall’auto, magari il motore ancora acceso per lasciare andare l’aria condizionata, si fotta Greta Thumberg e il pianeta, beh, se anche voi vi siete interrogati chissà quante volte su come funzionino gli ingorghi, perché cioè a un certo punto si crea questo tappo, spesso senza un incidente o altro a averlo scatenato, magari il rallentare compulsivo di qualcuno per guardare un incidente sull’altra carreggiata, o qualche altro motivo apparentemente inspiegabile, guardare le auto dall’alto potrebbe fornirvi qualche indizio. È come se fossi in uno di quegli elicotteri che d’estate, appunto, mentre l’asfalto rende la vista quasi offuscata, come se fossimo in preda ai miraggi nel deserto, volteggiano sulle auto incolonnate come i soldati di ritorno dal fronte russo, la neve neanche a pensarla. Vedo uno che rallenta, magari gli si ferma la macchina per un guasto, e poi di colpo vedo tutte le altre a seguirlo, qualcuno che si tampona, qualcun altro che si manda a fare in culo, perché uno ha provato una mossa di sorpasso azzardata, o anche solo ha perso tempo a guardare un video sul cellulare mentre stava guidando. Discorso a parte meriterebbe la faccenda dei parcheggi, perché da quassù è chiaro come in media la gente non sappia parcheggiare, manovre astruse all’ordine del giorno, gente che prova a infilare la macchina in spazi decisamente troppo piccoli, o che nel farlo sta scostata talmente tanto dal marciapiede da risultare quasi in doppia fila, qualcuno che invece prova a parcheggiare, le doppie frecce accese, ma non può farlo perché chi gli sta dietro si avvicina troppo e non gli lascia spazio, e via altre liti, altri colpi di clackson e vaffanc*li, magari qualcuno scende pure per menarsi. Ci sono anche quelli che, incuranti del caos, del traffico, la macchina in doppia fila ce la lascia davvero, magari per andare a ritirare soldi al bancomat, o fare una commissione. Auto lasciate lì, a bloccare la carreggiata, i bus che non ci passano, le mani degli autisti dai finestrini meriterebbero una coreografia in un musical, i vigili troppo presi da provare a domare quel mostro per poter andare lì a fare rimbrotti o multe. A quelle, in genere, ci pensano gli ausiliari del traffico, a volte si vedono anche loro, a muoversi nelle zone d’ombra, pronti a lasciare i loro malefici foglietti sperando di non essere visti, tipico agire di chi ha la coda di paglia o la coscienza sporca.
A vederla da quassù, Milano, e non parlo certo dello skyline futuribile della città che si alza qualche chilometro più in là, sembrerebbe dar ragione alla visione apparentemente “green” del sindaco Beppe Sala, basta auto, via parcheggi e corsie, sia tutto una bici e un monopattino. Tutti quei marciapiedi che si sono allargati, quelle panchine e tavoli da ping pong e picnic spuntati un po’ ovunque, spesso su tratti di strada colorati dai cittadini stessi, lì a togliere letteralmente il terreno sotto i piedi alle odiate macchine, qui sotto a fare casino, intossicarci, affumicarci. Sia dato spazio a luoghi ameni di ritrovo e di svago, proliferino i dehor, per dirla con il Renato Zero de Il Cielo, versione Icaro, “che uomo sei se non prendi un barattolo di vernice insieme a me e ricominciamo a dipingere questo mondo grigio, questo mondo così stanco, dell’amore che vuoi, dell’amicizia che rincorri da sempre, dipingiamolo di noi…”. Peccato, ma le Favole, le stesse per altro cantate sempre da Zero, vivono solo nella fantasia dei bambini, che nel mentre Milano sia appunto tutto un cantiere, la città in mano ai palazzinari, agli immobilieri, alle società finanziari e ai fondi bancari, fatto che magari potrebbe anche essere un bene per chi una casa ce l’ha, meno per chi volesse incautamente provare a comprarla o anche solo a cercarne una in affitto, ricorderete tutti gli studenti che dormivano nelle tendine di Decathlon davanti al Politecnico, qui dietro. Una città piena di contraddizioni, Milano, ripartita, certo, dopo lo stop improvviso e imprevisto del Covid, ma che si è dimenticata forse di lasciar salire a bordo i cittadini, Milano è dei milanesi, che notoriamente non esistono in natura. Una città che guarda verso l’alto, appunto, ma che per farlo non si fa scrupoli di scavare in basso, la vicina NoLo è uno splendido esempio di come la gentrificazione abbia modificato militarmente un quartiere/non quartiere, rendendo una idea legittima di riqualificazione in una sorta di espulsione coatta di ciò che non si vuole far vedere, il restyling di Piazzale Loreto lì pronto a cristallizzare un cambiamento inarrestabile, con buona pace di quanti ci avevano anche sinceramente creduto, qualcosa partito dal basso che però come l’Icaro cantato da Renato Zero, si è presto visto sciogliere le ali di cera. Io ambirei, per me e per i miei quattro figli, a un pianeta più a portata d’uomo, per usare una parola molto attuale, “sostenibile”, quindi figuriamoci se non vorrei veder scomparire le auto, specie quelle inquinanti, ma ho la percezione, credo anche piuttosto fondata, che non è cementificando la città e soprattutto togliendo posti auto, senza però che le auto diminuiscano, che si risolve un problema evidentemente atavico, come dire che per impedire gli scippi da domani saranno vietate tutte le borse o una astrusità del genere. Sala, del resto, sarà sindaco ancora per poco, il mandato scade nel 2026, e non credo che basti indossare un paio di calzini arcobaleno per trasformarsi in qualcosa diverso da quel che è sempre stato, quello riusciva giusto a Clark Kent nel momento in cui si toglieva gli occhiali e si sfilava gli abiti da umano. Un cantiere partito proprio il giorno di apertura della scuola, che chiude uno dei varchi che passano sotto i binari del treno a qualche centinaio di metri da qui sta decisamente complicando il traffico, e quindi il lavoro dei vigili, l’assenza totale di indicazioni a riguardo, che spinge migliaia di macchine a trovarsi il cantiere davanti solo quando vi è a ridosso, andando così a creare ingorghi anche nelle vie laterali, a rendere il tutto quasi apocalittico. Chissà come i miei nonni si godrebbero tutte queste auto affastellate come le tessere di un domino, penso, mentre in lontananza la sirena di un’ambulanza prova chiedere un ultimo, forse definitivo, gesto di civiltà a chi da troppo ha perso speranze e pazienza. Eznareps e Azneizap. Così dovrebbero scrivere sul muso delle auto, per farle leggere correttamente da chi le guardasse di sfuggita dallo specchietto retrovisore. Ma probabilmente, nessuno lascerebbero loro la carreggiata libera neanche così. Atrom è’l aznareps.