Lo sguardo si posa in terra, sull’asfalto bagnato, il calore di una primavera che già promette un’estate da record che velocemente ripristina la tipica secchezza di questi mesi. Lì, lievemente reso a brandelli ancor prima che dal becco del corvo dal passare impietoso delle auto, giace quel che resta di un topo. Siamo in città, quindi di un topo di fogna, animale che in genere non recepisce la benché minima empatia da parte di noi umani, almeno non la mia. Del resto sono stato io il suo involontario carnefice, è mia l'auto che lo ha sostanzialmente dec*pitato, pochi minuti prima che il corvo decidesse di banchettarci, una prima colazione all’inglese, carica di proteine. Dovevo parcheggiare, subito dopo aver lasciato i miei figli gemelli a scuola, saranno state circa le sette e cinquanta, l’orario in cui torno a casa è sempre il medesimo, giusto il tempo di farmi trovare all’apertura del supermercato, il primo a entrare, il primo a mettere la spesa sul nastro scorrevole della cassa, quando ho visto un parcheggio proprio nella piazza sulla quale si affacciano le finestre di buona parte del mio appartamento. Sulle prime, parlo di adesso che sto scrivendo, volevo digitare sulla tastiera del mio pc, è così che scrivo, la parola casa. Perché questo è il mio appartamento, casa. Ma avrei magari ingannevolmente indotto il lettore, che poi sareste voi che in un imprecisato momento futuro, futuro rispetto a quando io sto scrivendo queste parole, semmai non ci doveste essere e queste parole non abbiano il destino di incontrare lettori sarebbero come il famoso albero che cade non visto in mezzo a una foresta, magari avrei ingannevolmente indotto voi che mi state leggendo, un plurale sì ottimista ma anche solidamente appoggiato su dati statistici, magari avrei ingannevolmente indotto voi che state leggendo a pensare che io viva in una casa singola, magari di quelle con giardino, case che del resto nel mio quartiere sono presenti anche con una certa frequenza, invece abito al settimo piano di un palazzo di otto piani, la piazza sottostante, quella dove ho trovato parcheggio, ben visibile dal mio balcone. Dovevo parcheggiare, quando ho visto un parcheggio proprio in quella piazza. Sulla sinistra, dove ci sono le strisce blu, a pagamento per i forestieri, gratuite per noi residenti. Una buona posizione, perché mi consente, volendo, di evitare di fare il giro della piazza per tornare verso il centro, a destra ci si incammina verso la periferia, utilizzando strade laterali sempre molto meno trafficate. Sempre, si fa per dire, assolutamente da evitare il martedì e il venerdì mattina, quando ci sono in giro i camion della nettezza urbana, lì con il loro pachidermico sistema di ritiro delle varie tipologie di rifiuti, le lunghe code di chi sta andando di fretta da qualche parte in qualche modo bullizzate dal loro incedere quasi volutamente lento. Comunque, parcheggio. Mancano ancora dieci minuti all’apertura del supermercato, lì a poche decine di metri. Resto in auto, ascoltando un resoconto della prima tappa del Giro d’Italia alla radio. Quando ho fatto manovra, una manovra agevole, di mattina a quest’ora ci sono parecchi posti, altrimenti difficilmente reperibili in zona, ho sentito un rumore, immaginando fosse una bottiglia lasciata in strada da uno dei balordi che nottetempo popola la piazza, birre non di marca che si vendono in uno dei tre negozietti gestiti da bangladini della zona. Mancano due minuti alle otto. Scendo. Chiudo manualmente lo specchietto. Faccio il giro della macchina, devo chiudere l’altro specchietto, tempo fa qualcuno passando di fretta me lo ha rotto e ho dovuto pagare quattrocento euro la sostituzione, e devo anche recuperare dal sedile di fianco al mio due buste grandi della spesa che mi sono portato dietro. L’occhio mi cade sulla ruota anteriore, dalla mia parte, poco prima di fare il giro. C’è un grumo di sangue. Come se qualcuno ci avesse sputato su, dopo aver preso una botta in bocca. O lo strappo di polmoni di un malato di tisi. Una vista orribile, confesso, ma del resto a Milano capita magari di muoversi sui marciapiedi dovendo schivare chiazze di vomito, c*gate palesemente di umani, di tutto.
Non so per quale motivo, ma mi volto verso la strada, come percependo una presenza inquietante. Una scena vagamente da film horror, senti qualcosa alle tue spalle e in effetti qualcosa alle tue spalle c’è. Nello specifico, la presenza alle mie spalle non è esattamente una presenza, quanto piuttosto quel che ne resta, la cristallizzazione di un’assenza, a voler essere filosofici. Lo so. So che tirarla per le lunghe, creando una qualche labile forma di climax, dopo aver spoilerato sin dalle prime righe l’oggetto del mio raccontare è esercizio sterile, ho già detto del c*davere del topo, non era poi così difficile capire che il grumo di sangue sulla mia ruota a quello faceva riferimento. Ma le parole a volte servono a farci perdere l’orientamento, a distrarci per portarci da qualche parte dove altrimenti non saremmo andati, a farci perdere. Capace che qualcuno di voi, perso nel mio flusso narrativo, il parcheggio, la pioggerellina, la piazza, la casa, l’appartamento, la birra, i bangladini, si era dimenticato del corvo e del c*davere del topo. Certo, ho praticamente rovinato tutto con questo inciso, almeno in apparenza, le parole usate per spiegare altre parole, la metanarrazione dell’autore che entra nel racconto per dire cose sul suo raccontare, possono anche risultare fastidiose, ma sono rischi che chi scrive può correre senza in effetti giocarsi chissacché, se non l’attenzione di chi legge, voi. Anche se, e continuare a spiegarvelo certo potrebbe davvero essere un errore, amen, il fatto che voi abbiate di volta in volta decifrato perfettamente il mio tentativo di distrarvi, come il mago che muove spettacolarmente una mano mentre con l’altra compie il suo trucchetto, avrebbe potuto sufficientemente vezzeggiarvi da farvi soprassedere dal darmi del fastidioso. Siamo a un’impasse. A terra, in mezzo alla strada, inumidita da quella fastidiosa pioggerellina che mi costringerà, poi, a legarmi i capelli lunghi in una coda, c’è quel che resta di un topo, un topo di fogna. Il suo c*davere, a essere precisi, sprovvisto di testa. Si capisce che è un topo perché ancora non è arrivato il corvo, certo, e perché ancora, dopo di me, non è passata nessuna altra macchina, o se è passata di è guardata bene dal calpestarlo, la lunga coda riversa a fare una sorta di esse sull’asfalto bagnato. Manca la testa, che a questo punto suppongo sia parte di quel grumo di sangue che si trova sulla mia ruota anteriore sinistra. Questa scena sembrava...
Ho quasi un moto di vomito, così da andare anche io a contribuire a questa sorta di omaggio dadaista a Jackson Pollock che ogni mattina costella i marciapiedi di Milano, ma devo andare a fare la spesa, e poi ho una giornata impegnativa: soprassiedo. Al ritorno, però, invece di tagliare come faccio abitualmente la piazza in diagonale, costeggiando il parchetto per bambini che di notte diventa la discoteca dei balordi di cui sopra, faccio il giro largo della piazza, così da fotografare il c*davere del topo a beneficio dei miei familiari, cui racconterò la storia non appena sarò rientrato a casa, generoso nei particolari. È in quel momento che vedo il corvo che fa colazione, spettacolo che a sua volta mi potrebbe indurre al vomito. Anche qui, forse per quel tipo di stanchezza che a tratti si impossessa di me in questo periodo, un periodo particolarmente oscuro della mia vita, i miei genitori anziani che perdono pezzi e colpi, la lontananza a fare da amplificatore al loro e al mio dolore, una sorta di apatia a me assolutamente sconosciuta, sono genericamente uno che si annoia se ha anche solo mezza giornata libera, figuriamoci se so cosa sia l’apatia, una sorta di apatia a me assolutamente sconosciuta a farmi da spirito guida, forse per questa tipologia di stanchezza invece che parlare di vomito, termine, va detto, che rende perfettamente l’idea di disturbo che in effetti il vomito dovrebbe trasmettere, non sempre le parole sono capaci di veicolare tutte le sfumature di ciò cui sono preposte a parlarci, qui potrei aprire una parentesi lunghissima, partendo, è per me un classico, dalla parola “fig*”, assolutamente inadatta a parlarci di fig*, contrapponendola alla parola m*rda, lì precisa, quasi chirurgica, ma è d’altro che stavo raccontando, e io, forse per quella tipologia di stanchezza lì, invece di scrivere “vomito” stavo per scrivere “rimettere”, usando un verbo che, almeno nella mia zona d’origine, molto spesso sostituisce, appunto, vomito o vomitare. Rimettere. Quasi un modo gentile di chiamare qualcosa che gentile, in genere, non è. Rimettere, ricollocare laddove qualcosa in precedenza si trovava, “rimetti a posto i giocattoli, quando hai finito di giocarci”. In realtà, e qui stiamo tornando sugli stessi ambienti narrativi dell’incipit di questo testo, proprio dalle mie parte non si dice solo rimettere, per dire vomitare, si utilizza anche un gergo più dialettale, seppur Ancona, questa la mia città natale, sia sprovvista di un dialetto vero e proprio, l’antico vernacolo ormai andato perso e la nuova lingua più che altro una faccenda di cadenze e di facili tagli di sillabe, alla romana. Il verbo vomitare, o rimettere, appunto, viene in slang locale detto “cagnolare”. Per osmosi il vomito è il cagnolo, mentre non esiste un rimesso che oggettifichi il risultato del rimettere. Cagnolare, è sempre difficile risalire con precisione all’origine di certe parole d’uso gergale, deriva da questa non troppi simpatica usanza dei cani di mangiare il proprio o altrui vomito, di qui per cagnolo si intende non solo il vomito in sé, ma piuttosto un vomito che abbia incorporato anche qualcosa di ulteriormente schifoso, un cane che mangia il proprio o altrui vomito dovrebbe fornirci una immagine sufficientemente chiara di cosa si sta parlando. Qualcosa non troppo diversa da un corvo che seziona e poi mangia il c*davere decpitato di un topo, volando poi via coi brandelli di quel corpo che io stesso ho strappato alla vita, parcheggiando, le ali nere e grige a muoversi al ralenti. Del resto chi cagnola in genere lo fa inginocchiato, le mani a reggere il corpo, in una posizione non troppo diversa da quella del cane, non per nulla nel Kamasutra contemporaneo, lasciatemelo chiamare così, la posizione di chi si accoppia stando a quattro zampe viene chiamata, non certo facendo ricorso a un certo senso di internazionalità, alla doggy style, certo più cool dello stare a tirare in ballo le pecore. Cagnolare, doggy style, la posizione è la medesima e il cane è sempre il cane. Tutto questo mi ricordava una vecchia gag di...
Ovvio che lasciata la spesa a casa sono sceso con una di quelle borracce di metallo che oggi sono diventate di moda, tutti ad aborrire la plastica, non perché avessi sete, ma per provare a lavare dalla ruota della mia macchina quel grumo di sangue. Grumo di sangue che ovviamente non si è lasciato intimorire da appena un litro d’acqua ben conservato al fresco, probabilmente era il resto della testa del topo. L’idea di aver investito un topo, un topo di fogna, lo dico tanto per creare in voi che mi leggete quel minimo distacco atto a non farmi passare per uno che am*azza gli animali, ne ho sì appena uc*iso uno, ma è stato del tutto involontario, pensate a quante malattie porta in giro con sé un topo di fogna prima di giudicarmi, l’idea di aver investito un topo mi ha fatto venire subito in mente quella vecchia gag di Aldo Giovanni e Giacomo, quella con loro tre che fingono di andare in auto, Giovanni alla guida, Aldo al suo fianco e Giacomo seduto sul sedile posteriore, l’auto simulata con tre sedie e un volante di cartone. A un certo punto, mentre fingono di essere in giro Aldo indica un gattino sul ciglio della strada e Giovanni, con una sterzata veloce, lo investe, am*azzandolo. Subito dopo farà lo stesso con un dalmata. Il gatto reo di non aver attraversato come fanno in genere tutti i gatti, di qui il giustificarsi per aver deviato verso il ciglio della strada, il dalmata reo di essersi mimetizzato, bianco a macchie nere, con il brecciolino. Ecco, io ho fatto lo stesso con un topo, un topo di fogna, senza neanche accorgermene. E ora ho i resti della testa del topo sulla ruota anteriore sinistra, incuranti del mio gettarci sopra dell’acqua. Al punto che, fossi il protagonista di un film o di una serie tv, dovrei temere di essere incolpato di un qualche omicidio, quel sangue lì a riprova dell’investimento. Certo, immagino che se qualcuno mi accusasse di un omicidio, poi dovrebbe avere un qualche c*davere come prova del reato, e il sangue che ora macchia la ruota anteriore sinistra della mia auto sarebbe oggetto di una qualche analisi di laboratorio, che suggerirebbe agli inquirenti che di sangue di topo di fogna si tratta, sempre che il sangue del topo di campagna e di quello di fogna siano in qualche modo distinguibili tra loro. Non che i topi di campagna non siano portatori di malattie, intendiamoci, inutile che io ora stia qui a citare la peste, magari finendo per passare davvero per qualcuno che ce l’ha su con gli animali, ma un topo di fogna è un topo di fogna, lo potete ben capire. A proposito di malattie, l’aver visto un corvo nero sbocconcellare i resti del c*davere del povero topo, qui mi sto giocando la carta dell’empatia con la vittima, e il mio dichiararlo subito dopo non è un passo falso, attenzione, quando il rimarcare che non ho assolutamente nulla da nascondere, io. A proposito di malattie, l’aver visto un corvo nero sbocconcellare i resti del c*davere del povero topo di fogna, ecco, così va meglio, salvo poi volarsene via con qualche rimasuglio di carne e sangue nel becco, mi fa venire in mente che quel corvo, e quindi quei resti sanguinanti, sarà poi andato da qualche parte, più volte mi è capitato di vederli, quei corvi, sui tetti della auto parcheggiate in piazza, anche la mia, a volte li ho anche trovati sui balconi di casa mia, sì, casa mia, che è un appartamento al settimo piano, ha più balconi. L’idea che quelle zampette, lì dove magari io sono poi passato scalzo, o quel becco, abbiano subito prima di posarsi lì, dovei magari io sono poi stato scalzo calpestato i resti sanguinolenti di un topo di fogna mi inorridisce. L’idea, per dire, che parte di quei resti possa finire sulla maniglia della mia auto, maniglia che tocco con le stesse mani con cui tocco il mio smartphone, per dire, non perché io parli alla guida, ho il Bluetooth, ma perché magari mi serve di mettere un qualche indirizzo sul navigatore di Google Maps, smartphone a cui avvicinerò poi la bocca, magari andando poi a prendermi una qualche malattia m*rtale, la lectospirosi, la peste, il tifo, quel che è, o che una sorte del genere capiterà sicuramente a qualcun altro, magari a qualcuno già fragile di salute, tutto questo mi lascia pietrificato. Come mi lascia pietrificato l’idea che questo possa accadere per il semplice fatto che io abbia parcheggiato l’auto stamattina, a quella determinata ora, mentre il topo, incauto, attraversava la piazza, casualità che ne ha provocato la m*rte, e che poi ha portato il corvo a fare colazione coi suoi resti, quel pezzetto di carne a finire nel suo becco, e poi nella maniglia di qualcuno, qualcuno che poi finirà m*rto in qualche ospedale, i dottori a chiedersi come abbia preso quella malattia m*rtale e tremenda. C’è un modo di dire, che credo sia orientale, ma potrei sbagliami, e che ha dato vita a una teoria scientifica o parascientifica, che da questo modo di dire prende anche il nome, il “Butterfly Effect”, detta anche Teoria del Caos, e che cioè se una farfalla batte le ali in una parte del mondo quel battito di ali può scatenare non so che catastrofe anche lontanissimo da lì. Di più, come una piccola azione, apparentemente irrilevante, possa in qualche modo comportare effetti stravolgenti, per l’intero pianeta, spesso in successione. Ecco, qui non è il battito d’ali di una farfalla, ma quello di un corvo, ma prima ancora una auto che mette la freccia a destra e parcheggia sotto una pioggerellina insistente e fastidiosa, “The Crow Effect”, così potremmo chiamare questa teoria...
Questa teoria, dove un velato senso di colpa, non tanto dovuto a una forma latente di animalismo, quanto piuttosto per quello che in effetti la m*rte di quel topo potrebbe comportare alla salute di qualcuno, mia come di uno sconosciuto, colora di tinte ulteriormente cupe un già cupissimo scenario fatto di m*rti, pandemie, st*agi silenziose ma non per questo meno m*rtali. Il fatto che il tutto avvenga sotto una pioggerellina insistente, certo non devastante ma quantomeno fastidiosa, forse alla base anche di quel che è successo, l’asfalto bagnato avrà allungato impercettibilmente il mio spazio di frenata, magari avrà fatto scivolare le zampine del topo, benché abituate a stare nei liquami putridi delle fogne, il fatto che tutto questo avvenga sotto una pioggerellina insistente e che il claim del film Il Corvo, sempre un corvo, come nella storia che vi ho raccontato, Il Corvo, film ispirato al fumetto dark di James O’Barr, quello durante le riprese del quale trovò la m*rte, e di lì a breve l’imperitura fama, Brandon Lee, figlio di Bruce Lee, m*rte dovuta a un incidente di scena, un colpo esploso da una pistola che sarebbe dovuta essere caricata a salve, m*rto a ventotto anni, neanche la soddisfazione di entrare nel lugubre ma stilosissimo Club 27, in buona compagnia di Jimi Hendrix, Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison, Kurt Cobain e Amy Winehouse, il fatto che tutto questo avvenga sotto una pioggerellina insistente e che il claim del film Il Corvo, sempre un corvo, come nella storia che vi ho raccontato, il claim del film fosse “non può piovere per sempre”, una pioggia lì battente e costante a accompagnare tutto lo svolgimento tragico e violento della trama, potrebbe non apparire ai miei occhi, quelli del protagonista involontario di queste vicende, o almeno della scintilla che il motore di questa storia ha fatto partire, ma anche di chi poi si è preso briga di raccontarla, inanellando i fatti e, non credo servano didascalie o disegnini per dimostrarlo, siete in fondo gente sveglia, se siete arrivati fin qui senza perdere il filo labile del mio discorso, ma soprattutto si è preso la briga di infarcirla di deviazioni, anche radicali, l’idea iniziale di meta persa completamente di vista, l’andare tanto per andare divenuto senso assoluto del muoversi, dell’andare letteralmente e letterariamente zonzo. Non può piovere per sempre, è vero, infatti quando sono sceso con la borraccia per pulire i resti del cervello del topo di fogna dalla ruota anteriore sinistra della mia auto, operazione non andata a buon fine, non pioveva già più, quando ti servirebbe un po’ di pioggia lì a fare il suo lavoro figurati se piove, piove solo quando devi andare a fare una scampagnata, ultimamente molto di rado. Certo, ora potrei anche star qui a allestire un parallelo tra The Crow, il corvo, e The Crown, la serie dedicata alla famiglia reale inglese, nello specifico alla storia della regina Elisabetta II, scomparsa giusto un anno fa, nel mentre Carlo, il figlio di Elisabetta II, è diventato Carlo III e sua moglie Camilla, l’odiata Camilla, è diventata non regina consorte, sorte, scusate il gioco di parole infelice, capitato a tutti gli altri reali acquisiti prima di lei, a partire da quel Filippo che ha di poco anticipato la dipartita di Elisabetta II e che di Carlo III è stato il padre, ma di regina e basta, per una applicazione delle nuove norme di Palazzo istituite da Carlo III medesimo, fatto che rende la loro storia d’amore a tutti gli effetti una storia d’amore potentissima, più forte dell’avere praticamente il mondo intero contro, a partire dai figli di Carlo, ancora non Carlo III, e Diana, e provateci voi a combattere l’immaginario di Lady D, se ce la fate. Potrei, ma non è esattamente mia intenzione farlo, nonostante i corvi neri, quelli che hanno attraversato a più riprese queste mie righe, siano di fatto gli animali più vicini alla famiglia reale, ben più degli Welsh Corgi Cardigan che per anni hanno fatto compagnia alla regina, fatevi un giro alla Torre di Londra, dove si trova l’oro della Corona, e vedrete se mi sbaglio, e perché in fondo lo spirito anarchico che da sempre mi abita, lo dico con la compiaciuta ospitalità che quasi mai caratterizza i miei concittadini, parlo sia della mia città natale, Ancona, che di quella nella quale sono in esilio da ventisei anni, Milano, lo spirito anarchico mi induce a guardare alla corona, a qualsiasi corona, con lo stesso sguardo carico di sprezzo di un Gaetano Bresci, mica è un caso che io abbia sposato le istanze psicogeografiche, Dio salvi Iain Sinclair e prima di lui Guy Debord, dopo aver letto il libro Serpenti e scale di Alan Moore, sì lo stesso Alan Moore che poi scriverà la storia di V for Vendetta, innalzando Guy Fawkes a icona della ribellione a qualsiasi potere costituito, un libro che racconta di come la zona di Holborn, quella che si trova a nord di SoHo, mica a caso SoHo sta appunto per South of Holborn, a sud di Holborn, lo dico scrivendo queste parole non troppo distante dall’erede posticcio e milanese di SoHo, NoLo. Nord di Loreto, dove Loreto non è la ridente cittadina in provincia di Ancona, quella che ospita la casetta natale di Nazareth, portata in volo dagli angeli dalla Palestina fin nelle Marche, dalle mie parti, ma Piazzale Loreto, anche quello dalle mie parti, parti dove vivo ora, Piazzale Loreto, luogo iconico come pochi quando si avvicina il 25 aprile, a proposito di regicidi e di topi di fogna. Holborn che era zona fortemente psicogeografica, sede di buona parte dei preraffaelliti, a partire da Gabriel Dante Rossetti e Lizzie Siddal, ma anche sede dell’impiccagione post m*rtem di Cromwell, reo di aver temporaneamente dismesso la corona, e non vuoi impiccare il c*davere di chi ha osato deporre anche se per poco un re? Quindi no, niente The Crown, serie che ho visto solo per far compagnia a mia moglie Marina, che invece verso la corona nutre una qualche forma di attrazione, in special modo per la figura di Diana Spencer. Topi e principesse, del resto, da che Disney ha sfornato Cenerentola nel 1950, Gus e Jaq protagonisti assoluti, per simpatia, vanno di pari passo. Oggi ho dec*pitato un topo di fogna, e l’ho fatto solo per vederlo morire, avrebbe cantato un Johnny Cash d’annata, ancora ben lontano dall’incontrare Rick Rubin e i suoi suoni cupi e scarni. Dio salvi un regicida.