Alzi la mano chi, saputo di The Comedian, istallazione di Maurizio Cattelan alla fiera espositiva d’arte di Miami, anno del Signore 2019, per intendersi la banana vera appiccicata con uno scotch di quelli da imballaggio alla parete della galleria, ecco, alzi la mano chi, saputa di quell’istallazione lì non ha pensato, dando sfogo a un minimo di superficialità, “Ecco, questa l’avrei saputa fare anche io”. Un po’ qualcosa di non troppo diverso dei tanti che l’hanno pensato, magari anche detto o scritto, riguardo ai tagli su tela di Fontana, discorso che riguarda buona parte dell’arte contemporanea, arte che spesso si basa più su una idea, spesso idea apparentemente più di marketing che artistica, che sulla realizzazione. Del resto, sempre Cattelan è stato al centro di un’altra querelle, quando tre anni dopo, nel 2022, l’artigiano Daniel Druet, creatore fisicamente di una parte importante delle opere di Cattelan, dal Papa Wojtila colpito dal meteorite o dell’Hitler bambino inginocchiato in preghiera passando per il Cattelan che spunta da un buco in terra, aveva chiesto all’artista di pagargli i danni per non averlo mai citato come autore fattuale delle sue opere, il sodalizio era durato dal 1999 al 2006. Una querelle che metteva in dubbio proprio la primogenitura delle opere d’arte, se erano più artistiche le idee o la realizzazione delle medesime, quelle che porteranno Cattelan a vincere alla grande in tribunale. Tornando alla banana, battuta all’asta già il giorno dopo l’istallazione per la cifra monstre di centoventimila dollari, si tratta di una vera banana, neanche conservata come il famoso squalo di Damine Hirst, figuriamoci il clamore nel sapere che il giorno dopo è arrivato a Miami un altro artista, il misconosciuto David Datuna, che ha staccato la banana dal muro e se l’è mangiata, dando vita a sua volta a una performance artistica dal nome Hungry Artist, cioè artista affamato. Quasi della serie: vale tutto. Il fatto è che certa arte, sembrerebbe averci voluto dire prima Cattelan, col suo solito tocco geniale, poi Datuna, è deperibile, al punto che se Datuna non se la fosse mangiata, nel giro di qualche giorno, al massimo settimana, appiccicata alla parete ci sarebbe rimasta una poltiglia putrescente, la banana andata a male. Arte deperibile che, faccio un altro esempio, la scrittrice e performer Shirley Jackson ha cristallizzato nel suo racconto sulla pelle umana Skin, composto di oltre duemila parole che la scrittrice canadese avrebbe voluto fossero scritte, singolarmente, in altrettanti corpi, più che scritte, quindi, tatuate. L’idea, anche lì, è proprio quella delle deperibilità dell’opera, perché quando ogni singola persona che aveva su tatuata una parola del racconto fosse morta, o nel caso avesse cambiato idea e se la fosse fatta cancellare col laser, avrebbe comportato la perdita di un pezzetto del racconto, fino alla sua scomparsa definitiva, quando anche l’ultimo dei duemila e passa volontari non sarà più su questa terra. Racconto che per altro solo i singoli partecipanti, oltre all’autrice, conoscono. Performance geniale che però non è andata a buon fine, non abbastanza volontari hanno preso parte alla chiamata alle arti, anche se il messaggio è arrivato più che chiaramente.
Che l’arte sia deperibile ben lo sanno gli artisti di strada, quelli che spesso erroneamente vengono chiamati graffitari o writer. Nel momento in cui si decide, infatti, di regalare la propria arte a un luogo, applicandola a una parete di un palazzo, a un muro, a un luogo pubblico, è chiaro che di quella opera non si potrà controllare più la conservazione, col tempo potrebbe scolorirsi, rovinarsi, qualcuno potrebbe farci su un tag o appiccicarci un manifesto o un volantino abusivo, l’intonaco potrebbe staccarsi o addirittura potrebbero tirare giù il tutto, assolutamente senza controllo da parte dell’artista. O almeno, quasi sempre senza controllo. Blu, il nostro writer più famoso, uno dei più famosi al mondo in assoluto, qualche anno fa, nel 2016, ha deciso di cancellare tutte le opere che erano sparse per Bologna, sua città adottiva (lui è natio di Senigallia, dalle mie parti). Il motivo di una scelta tanto radicale era la decisione da parte della Fondazione Bononiae di staccare, fisicamente, alcune delle opere di Blu per esporle nella mostra Street Art- Banksy & CO- L’arte allo stato urbano, andando in qualche modo a snaturare del tutto l’idea stessa di street art, opere che gli artisti regalano a determinate zone urbane. Una scelta radicalissima, quella di Blu, che ha in una notte, quella tra l’11 e il 12 marzo del 2016, cancellato tutte le sue opere bolognesi, con l’aiuto di amici e volontari. Quello che era stato pensato come un bene comune, opere d’arte alla luce del sole, per i cittadini, sarebbero dovute divenire opere da museo, allora meglio il nulla. Qualche giorno prima a riguardo era stato già chiaro il suo sodale Ericailcane, che aveva tirato fuori uno dei suoi classici topi che rosicchiava un muro, attaccando chi vive rubando l’arte altrui. Decine di opere sono sparite, e il messaggio lasciato sulla parete del centro sociale autogestito Xm24 al posto famoso murales apocalittico che ne decorava la facciata, quella scritta che richiama la Banda Bonnot raccontata da Pino Cacucci, “In ogni caso nessun rimorso”, qui divenuto “Rimpianti sì, ma in ogni caso nessun rimorso”, racchiude ben più di un proclama o un manifesto. L’arte antagonista non si lascia ingabbiare.
A volte, però, non è stato Blu a decidere di eliminare la propria arte, ma circostanze esterne, spesso veicolate da persone. È il caso di quel che è capitato nella mia Ancona, in zona porto. Nel molo sud, dalle parti della Fiera della Pesca del capoluogo marchigiano, infatti, per qualcosa come undici anni due ingombranti e anche piuttosto brutti silos, di quelli atti a contenere grano, hanno fatto bella mostra di loro grazie all’intervento di Blu e di Ericailcane, che li hanno impreziositi con le loro opere intitolate Bottles. Due bottiglie, di qui il titolo, una contenente un palombaro inginocchiato con due chele di granchio al posto delle mani, l’altra con un tonno in giacca e camicia. Due opere che erano giustamente diventate parte del corredo cittadino, lì dietro al Lazzaretto che, proprio durante la amministrazione Mancinelli, dieci anni dal 2013 al 2023, ha spostato nella Mole Vanvitelliana buona parte delle attività culturali della città. Andare verso il porto, che poi è il vettore percorso da quasi tutti i forestieri che si trovano a passare in città per imbarcarsi, o anche semplicemente andare verso il centro comportava trovarseli lì, sulla sinistra. Poi, per una scelta dell’amministrazione portuale, ecco che quell’area è stata sgomberata dai silos, con buona pace di Bottles e di quanti vi si erano giustamente affezionati. Opere deperibili, quindi, anche per mano dell’uomo, seppur non sempre con la volontà di eliminarle. Volontà che ha invece rischiato di far sparire un’altra opera dei due artisti in questione, Blu e Ericailcane, anche questa rimasta esposta per undici anni, Animal Factory, che dal 2007 correda la facciata esterna del PAC, il Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, è stata a forte rischio nel 2018, quando chi lo gestisce ha lanciato un sondaggio per chiedere agli utenti di deciderne le sorti. L’opera, che rappresenta una plastica denuncia di come Milano sia la città delle finanze, sì, e anche della cocaina, il tutto in un corredo di animali vagamente hieronymusboschiani, ha quindi rischiato di scomparire, perché ritenuta obsoleta. L’opera era nata nel marzo del 2007, come sempre in una notte, giusto in tempo per l’inaugurazione della mostra Street Art Sweet Art, curata da Vittorio Sgarbi, critico cui si deve in qualche modo lo sdoganamento dell’arte di strada nella cultura italiana accademica. A sostegno della salvaguardia dell’opera, e quindi in forma di solidarietà ai due artisti, il giorno dell’inaugurazione dei convegni atti a celebrare il decennale di quella importante mostra, molti degli artisti che vi avevano preso parte, oltre che nuovi nomi della scena, hanno occupato simbolicamente le sale del PAC, come forma di protesta. Perché se un’opera di street art diventa obsoleta e quindi da cancellare dopo dieci anni, forse sarebbe da trattare alla stessa maniera buona parte dell’arte esposta nei musei.
L’opera che invece non ha avuto un carnefice, e neanche dei difensori d’ufficio, e che negli ultimi anni Milano ha perso è l’imponente murales che campeggiava a lato della stazione dei treni di Lambrate, affiancato da un gigantesco topo del solito Ericailcane. Il murales di Blu presentava, tocca usare il passato, ahinoi, una enorme bicicletta, con tanto di ciclista in sella, lì a stagliarsi su un fondo nero, in alto, e totalmente bianco, in basso, sopra un mare di auto, calpestate dalle sue ruote. Una bici che sovrasta auto incastrate fino a formare una specie di pavè, fotografia impietosa del traffico milanese, il topo di Ericailcane alla destra del tutto, verso il sottopasso della stazione. Murales gigantesco che prendeva buona parte del parcheggio dei bus sul lato Piazza Monte Titano, oltre il ponte della ferrovia, su via Rombon, dove partono anche le navette di aziende quali Mondadori e IBM, fatto nel 2009, la fine degli anni zero è stato il suo periodo aureo, sembrerebbe, anche considerando che nel 2008 Blu ha dipinto la facciata esterna della Tate Modern di Londra, con un’opera che mostra una testa d’uomo, bianca, di cui si vede anche la sezione interna, una sorta di condominio orrorifico e apocalittico, prova provata del suo riconoscimento come uno dei maggiori street artist del mondo. L’opera in questione, che ho apprezzato in tutta la sua potenza quando è apparsa, in questa parte di Milano ci vivo e qui mi è capitato spesso di transitare, viste le mie collaborazioni ondivaghe cn la Mondadori negli anni, si è preso cominciata a rovinare, immagino per una questione legata alla natura della parete su cui si trovava. Finendo nel tempo per perdere sempre più parti, a volte addirittura imbrattate da qualche idiota ignaro di cosa andava coprendo. Questo finché i lavori di restaurazione di questa parte della stazione non ne hanno sancito la capitolazione definitiva, cancellata per lasciar spazio, presto, a piccole opere insignificanti, come di chi decide di sostituire un Raffaello con una crosta comprata in una bancarella. Quella che è stata a lungo simbolo di una Milano che provava a combattere il grigio del cemento con l’arte, penso anche ai lavori, decisamente meno impattanti e di valore, di Pao, coi suoi panettoni di cemento trasformati in pinguini, agli stencil di Arnold che si sono sparsi in giro per Brera, ai manichini nudi di via Vitruvio.
Oggi va per la maggiore quella forma di murales a metà tra il sociale e lo storico del collettivo Orticanoodles, guidato dalla coppia Walter Wally Contipelli e Alessandra Alita Montanari, che si trovano al quartiere popolare dell’Ortica e nella limitrofa Rubattino, coi vari progetti Orme Ortica Memoria, Alle donne del Novecento, sulla facciata dell’Istituto tecnico Pier Paolo Pasolini, Il duomo va all’Ortica, lungo via Corelli, con la carrellata di artisti rap che corredano i loft di Corelli 36. Loro anche il murales dell’ospedale Gaetano Pini, quello che rappresenta Dario Fo e Franca Rame della Scuola Civica Paolo Grassi, il Blue Wall dell’hotel Astoria, come l’Aida Accolla in via Borsieri, all’Isola, i fiori di Quarto Oggiaro come il cuore musicale di via Conchetta, ipercolorato su fondo nero, e per rimanere più in zona della stazione di Lambrate lo Skip Ordinary Beauty di Crescenzago e il gigantesco murales su tinta viola con su i volti di uomini e donne che hanno fatto l’Italia libera che si trova sulla facciata del parcheggio di via Plezzo, ben visibile da casa mia, così detto en passant, miracoli di abitare a un settimo piano senza troppi palazzi alti di fronte. Una sorta di dominio della street art a Milano oggi, quella degli Orticanoodles. Ultima opera, da poco inaugurata, sempre per la serie OrMe-Ortica, patrocinata dal Comune di Milano, OrMe-Ortica che sta appunto per Ortica Memoria, il Murale dei Diritti, all’Ortica, ovviamente. Duecento volti di persone straordinarie, visionarie, recita il comunicato, che hanno avuto il coraggio di sfidare le convenzioni sociali e che, continua il comunicato, con passione, impegno e determinazione, hanno fatto la storia dei diritti umani e civili. Duecento volti ritratti nell’ennesimo palazzo di questo quartiere storico del capoluogo lombardo, tra i quali anche quello dell’attivista per il diritto alla casa Franca Caffa, novantaquattrenne milanese che ha chiesto a gran voce che il suo volto fosse tolto da quel murales. “La difesa dei diritti è incompatibile con la giunta Sala,” ha infatti dichiarato, “e i murales sono uno strumento usato dalle società immobiliari per far aumentare i prezzi”. Ha poi aggiunto, in una intervista rilasciata all’AGI, “Non mi è possibile associare il volto di un bambino senza casa alle iniziative di Ortica Memoria. Io parlo un’altra lingua. Considero che la condizione attuale, nella Milano del Modello Milano, in Italia, in Europa, nel mondo, sia il risultato del processo di affermazione del dominio dei potenti sui dominati in corso almeno da un cinquantennio con sempre nuove invenzioni e nuovi esiti di disumanizzazione”. Un chiaro esempio di gentrificazione, l’ennesimo sotto la gestione Sala, esempio che va in direzione ostinata e tristemente opposta a quella di Blu a Bologna.
Sempre a Lambrate, non troppo lontano da dove si trovava l’opera di Blu e quella di Ericalicane, si trova Anthropoceano, di Iena Cruz, una intera facciata di un palazzo in via Viotti 13, che mostra cetacei a nuotare tra i tralicci, mentre richiama alla mente il tratto di Blu, in parte, Love Seeker di Milo, che impreziosisce il retro del Teatro Carcano, al Giardino delle Culture. A proposito di ferrovie, la galleria che si trova sotto le ferrovie in via Pontano, zona NoLo è una specie di galleria d’arte a cielo aperto, con opere di molti giovani artisti. Blu, con Ericailcane, rimane visibile al già citato PAC, in via Palestro, zona giardini pubblici Indro Montanelli, e lungo la facciata del centro sociale Cox, in via Conchetta. Una delle ultime opere di street art arrivate in città è opera di Ozmo, natio di Pontedera, milanese d’adozione, che ha dipinto sulla facciata di un palazzo lungo corso XXII marzo, angolo via Pietro Calvi, all’altezza del civico 31, la Dama con ermellino di Leonardo da Vinci, opera dipinta dal maestro toscano proprio durante la sua permanenza milanese, presso gli Sforza, e conservata al Museo Nazionale di Cracovia, in Polonia. Ozmo, per altro, ha lasciato traccia della sua arte anche nella mia città natale, Ancona, per la precisione in piazza Oberdan, proprio all’ingresso della Galleria San Martino. Un’opera molto discussa in città, perché di tema religioso e da molti ritenuta blasfema, vi si mostra una Madonna con bambino, una città schiacciata dai piedi della donna, entrambi con il volto rovesciato, il mento verso l’alto, i capelli verso il basso, come una Linda Blair in preda alla possessione. Un diavolo, del resto, o comunque un essere mostruoso dall’enorme testa viola montata su lunghe gambe, le si avvicina di lato, una croce urbana a dividerli e quasi impendergli di allungare su di loro le lunghe braccia. A affiancare Ozmo, in quell’occasione, l’anconetano Run e il polacco M-City coi suoi stencil, anche loro a lavorare sui muri della città nel 2008, all’interno della medesima iniziativa che ha visto arrivare in città Blu e Ericailcane con Bottles, Parla col muro. Alta diciassette metri, lunga cinquanta, la Madonna con bambino di Ozmo è stata oggetto di duri attacchi anche da parte della curia, chi scrive è figlio di un diacono che in curia ci ha lavorato fino all’anno scorso, l’interpretazione blasfema dovuta ai volti rovesciati alla base di un fraintendimento che vuole l’arte didascalica, anche nel momento in cui è semplicemente immaginifica. È di questi tempi la notizia che la nuova giunta comunale, destrorsa, ha deciso di affidare la decorazione dell’imbocco dei due lati della Galleria del Risorgimento, notizia per altro veicolata dall’averla per ora fatta dipingere di celeste, spiazzando la cittadinanza, evidentemente non troppo aperta alle novità, a un manipolo di street artist giovani e della zona, l’idea di arricchire la città con un po’ di cultura contemporanea a muovere il tutto. Subito i più conservatori, figuriamoci i più retrogradi, a chiedere che non sia coinvolto proprio Ozmo. Certo, magari a loro la facciata del palazzo che ha dipinto con la Dama con l’ermellino di Leonardo è sfuggito, ma anche che il dipinto della Madonna con bambino era un suo omaggio al Lorenzo Lotto così presente in città non deve proprio essere stato colto. Non c’è gusto in Italia a essere intelligenti, diceva Freak Antoni, quello del “largo all’avanguardia, pubblico di merda”. Come non dargli in entrambi i casi ragione?