Io non ho niente, ovviamente, contri certi tipi di lavoro piuttosto distanti dal mio. Tipo quello di chi, immagino impiegato all’Anas, ha il compito complicato di decidere quando e come chiudere certi tratti delle autostrade. Magari per sistemare il manto stradale o fare altri tipi di lavori, come organizzare al meglio il traffico, affinché non si creino code, il traffico non si intasi e nessuno abbia a correre pericoli o magari impiegare un’ora e mezza prima di capire come caz*o tornare verso casa. Un’ora e mezza, invece di cinque minuti: tanti ne avrebbe impiegato ad attraversare il tratto di autostrada interrotto. Non ho niente contro questo tipo di lavoro, in generale, ma contro il tipo che, l’altra notte, ha stabilito che non solo doveva essere chiuso il tratto vicino al confine con la Svizzera, lato Como, ma lo ha fatto senza indicare una qualche deviazione, e non parlo certo di quelle cantate, a ragione, da Vasco Rossi negli anni Ottanta. Poi, dopo aver allungato il brodo di circa mezz’ora, passateci voi dentro Como di sabato sera, la gente a chiacchierare in strada, di fronte ai locali, la guida di alcuni che evidentemente fino a un secondo prima di salire in auto erano proprio davanti a quei locali. Il concetto di linea retta trasformato magicamente in zig-zag, le rotatorie, immagino, ideate dal medesimo tipo cui hanno affidato le chiusure dei tratti autostradali. Insomma, il caos. Caos che poi si è trasformato in Apocalisse, perché il tipo, sempre lui, ha deciso di chiudere anche il pezzo di autostrada. Perché a un certo punto l’autostrada sono riuscito a imboccarla, che da lì porta verso Milano: il bivio con l’A8. Interruzione non indicata in precedenza. Dopo tre chilometri compare una scritta su quei videowall che di solito ti distraggono dicendoti di non distrarti alla guida: bivio per A8 chiuso. E così ti trovi a girare verso Como, cioè tornare indietro, tu che volevi solo andare a dormire a Milano. Il navigatore che impazzisce quando vede che hai voltato a destra quando potevi, e dovevi, rimanere sulla strada diritta. Navigatore che, impazzito, ti dice di uscire a Origgio, ma l’uscita di Origgio è chiusa; quindi, ti dice di uscire a Legnano, cosa che fai, perché nessun videowall o altro ti spiega come arrivare a Milano. A questo punto, esci a Legnano e il navigatore ti fa fare un giro e poi ti indica l’ingresso di una autostrada. Ingresso che tu, fiducioso nel genere umano, imbocchi. Salvo poi scoprire, otto chilometri dopo, che sei esattamente dove eri qualche minuto prima, al bivio chiuso con la A8. Di nuovo verso Como, quindi. Il navigatore che impazzisce, tu che salmodi, e stavolta no, non esci a Legnano, mica sei scemo, esci a Uboldo. Uboldo, parliamone. Ci deve essere stato qualcuno, suppongo un avo del tipo che lavora all’Anas e decide a cazzo le chiusure dei tratti dell’autostrada, che ha scelto i nomi delle cittadine e dei comuni della Lombardia. Qualcuno a cui i lombardi dovevano stare profondamente antipatici, probabilmente uno arrivato qui dal sud e chiamato dagli autoctoni terrone. Così i paesi qui si chiamano tutti con nomi orrendi, Orino, Oreno, Origgio, Cermenate, Uboldo. Come si fa a chiamare un paese Uboldo, mi chiedo, mentre imbocco l’uscita per Uboldo.
Mentre me lo chiedo, mi viene in mente una volta, ero appena arrivato a Milano, con Marina, ancora neanche sposati (l’anno prossimo facciamo venticinque anni di matrimonio). Provavamo a scoprire i dintorni, facendo appunto conoscenza con questa tipologia di brutture: Concorezzo, Cassate, Gessate, Lentate, Lainate, Linate. Siccome non avevamo i navigatori, che forse neanche esistevano, e ci si muoveva usando gli stradari, ma un nostro amico aveva internet a casa e comunque viveva qui da più anni di noi. L’abbiamo chiamato col cellulare chiedendogli di aiutarci, perché ci avevano invitato a una festa a Stoccazzo sull’Adda, così gli abbiamo detto. Una idiozia, anche se Aldo Nove in Puerto Plata Market aveva spiegato, vado a memoria, che il primo nome proprio di Concorezzo era Cazzone, o una cosa del genere. Puerto Plata Market che aveva per protagonista tale Michele, tradito dalla sua fidanzata Marina. Questo ai tempi a Antonello, vero nome di Aldo, non ho avuto il coraggio di chiederlo: perché? Ai tempi ci si frequentava, tutti figliocci di Nanni Balestrini. Comunque, Alberto Forni, il nostro amico che avevamo chiamato, imbarazzato, ha provato a dirci con parole dolci che forse ci avevano fatto uno scherzo, perché non esisteva nessuno Stoccazzo sull’Adda, inconsapevole che lo scherzo lo avevamo fatto noi. Ecco, il tipo che decide le chiusure dei tratti autostradali, di notte, per non creare disagi, o almeno per crearli a pochi, noi tra questi, è il sindaco di Stoccazzo sull’Adda. Almeno credo, perché neanche l’uscita di Uboldo è quella giusta. Così eccoci di nuovo in autostrada, a leggere increduli che il bivio con la A8 è chiuso, tocca svoltare a destra verso Como. E sono tre volte nel giro non so più di quanti minuti. A quel punto, la calma non è esattamente il mio tratto distintivo, faccio notare a Marina che forse star lì a fare un post su Instagram potrebbe essere meno urgente che cercare una soluzione su Google Maps, visto che io sto guidando, di notte, e non posso farlo senza perdere la patente tre mesi e forse anche la vita. Sta facendo un post, Marina, perché ho appena fatto una serata al Lac di Lugano con Vinicio Capossela, all’interno del Lac in festa, inaugurazione della stagione teatrale luganese, e giustamente vuole raccontare la cosa. In auto siamo sette, io, lei, i nostri quattro figli, che dormicchiano dietro, e mia suocera. Contavamo di arrivare a casa per mezzanotte, e ora è mezzanotte e un quarto. Trova una soluzione, dice, e la seguo. Nel mentre il mio smartphone, sempre su Google Maps, contraddice la sua versione, e ogni volta che giro a destra, mentre dovrei girare a sinistra, o viceversa, va fuori di testa, implorandomi di fare una inversione a U. Siamo dispersi non so dove, passando per strade industriali, poco trafficate. C’è giusto qualche altro povero Cristo, Capossela ha cantato la sua Povero Cristo durante la serata al Lac, proprio prima di chiudere il tutto con Ovunque proteggi; c’è giusto qualche altro povero Cristo che come noi non sa come tornare a casa.
Siamo ostaggio dell’Anas, questa è la realtà dei fatti, come se fossimo i protagonisti de L’isola di cemento di James G. Ballard, scrittore britannico che ci ha “cantato” l’apocalisse e soprattutto ha marcato la sottile linea che divide la follia dalla lucidità, La mostra delle atrocità e Crash, presumibilmente, le sue opere più iconiche. O magari come i protagonisti de Gli autonauti della cosmostrada, libro di addio di Julio Cortázar, scritto a quattro mani con la sua compagna Carol Dunlop. Un libro con una storia travagliata, in Italia, uscito solo 2012, quasi trent’anni dopo la pubblicazione, a causa di un veto della vedova Calvino sull’Einaudi, casa editrice del catalogo Cortázar. Un libro che ci racconta un viaggio stralunato; i due a bordo di un furgoncino della Volkswagen a attraversare l’autostrada francese che conduce da Parigi a Marsiglia; la mission di fermarsi a dormire in ogni area di servizio, senza mai uscire dall’autostrada stessa; la diagnosi di una malattia mortale per entrambi a spingerli verso questa romantica e al tempo stesso folle impresa. Certo, va detto che le aree di servizio delle autostrade francesi sono spesso meglio dei nostri parchi cittadini: verdeggianti, accoglienti, pulite, assolutamente isolate dal traffico lì a qualche passo. Anche la strada che mi sono trovato a fare subito dopo il mio ritorno in Italia, chiusa l’autostrada che da Como porta verso Milano, doveva essere incredibilmente suggestiva. Il lago a sonnecchiare scarsamente illuminato dalle luci delle case sulla sinistra, ma proprio quella scarsa illuminazione ha reso il tutto oggetto di supposizioni. Nei fatti non si vedeva niente, anche perché l’attenzione era tutta a non investire ragazzi ubriachi o non farsi centrare da ragazzi ubriachi alla guida.
Di fatto rientriamo in autostrada proprio a Lainate, credo, la stanchezza ha la meglio sulla memoria, giusto in tempo per fare pochi chilometri e pagare il pedaggio al casello. Maledetta Anas o Società Autostrade, non ho mai capito esattamente chi fa cosa e chi prende cosa. Per la cronaca, poi, la faccenda del citare Capossela e il mio presentarlo al Lac di Lugano potrebbe apparire come un mio “flexare”, termine giovanilistico per dire “vantarsi”, e tecnicamente lo è, ma lo è esattamente alla stessa maniera in cui flexa Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari alla fine di Non sono cool, canzone dell’ultimo album della band bergamasca Fake News: dopo aver perculato per tutta la canzone i trapper e questa loro mania di flexare, appunto, chiude il brano citando il sold out arrivato dopo pochi minuti dalla messa in vendita dei biglietti del loro primo, di due, concerti a San Siro. Flexo fingendo di non flexare. Lo faccio, cioè, perché voglio allungare un’ombra di cultura. Ombra che poi provo a allargare citando un Ballard quasi minore, e un libro chicca come quello di Cortázar e Dunlop, su un discorso che altrimenti potrebbe suonare becero. Un espediente narrativo, in sostanza, che qui vado a spiegare alzando ulteriormente il tiro, buttando sul tavolo un po’ di metanarrativa. La voce narrante, che sembrerebbe coincidere con quella dell’autore, cioè io, e che interviene a spiegare cosa ha appena fatto, didascalicamente, voce narrante e autore che già erano abbondantemente entrati nella narrazione, essendo questo un racconto in prima persona di un fatto realmente accaduto, per quanto possa essere reale qualcosa di scritto, di raccontato, quindi mediato dall’atto dello scrivere e del raccontare.
Un passaggio metanarrativo massimalista, certo, e in quanto tale contorto come il massimalismo prevede. Un passaggio arricchito, seppur apparentemente abbassato, da quel mio andare a citare un passaggio di Non sono cool dei Pinguini Tattici Nucleari, che messi in coda a Capossela, Ballard e Cortázar potrebbero sembrare una incongrua deviazione sul pop, addirittura sul pop usa e getta. Nei fatti, a parte la stima reale che nutro per Zanotti e per le sue canzoni, quindi per le canzoni della band (sia mai che sia io a mettere in dubbio il loro star lì a decantarsi come band vera e propria), c’è che alternare passaggi alti a passaggi bassi, o in apparenza tali. Diciamo passaggi colti a passaggi pop, dando alla parola pop una valenza che evidentemente non si riconosce. Mica è un caso che figlio legittimo del massimalismo, penso a John Barth e Donald Barthelme, per fare un paio di nomi, sia l’avantpop di Mark Leyner o David Foster Wallace. Adesso giuro che mi fermo nel fare questo giochino di citare nomi che possano alzare il discorso, o portarlo altrove. Ma è notte, ho impiegato, fin qui, quasi due ore per fare un percorso che, in quanto notte, pensavo di fare in cinquanta minuti massimo, già all’andata ci avevo messo molto, maledicendo ovviamente il tipo dell’Anas che aveva deciso di chiudere una corsia per corso di marcia, prima di arrivare a Como, per questi benedetti lavori. Conscio che d’estate li si maledice se fanno lavori perché è estate, li facciano in autunno che c’è meno traffico, salvo poi maledirli se li fanno in autunno, perché ci rompono i coglioni, hic et nunc. In sostanza, vorremmo lavori fatti solo quando non siamo noi a transitare da quelle parti, come in una sorta di preveggenza da parte di chi compie queste opere, tarato sulle nostre personali esigenze. Il fatto è che è notte, ho impiegato, fin qui, quasi due ore per fare un percorso che, in quanto notte, pensavo di fare in cinquanta minuti massimo, e siccome fino a poco prima di mettermi in auto ero su un palco a parlare con Vinicio Capossela del suo ultimo lavoro, 13 canzoni urgenti, di fronte a un teatro pieno in ogni angolo, gente anche in piedi lungo i corridoi, alla faccia della rigidità degli svizzeri, e parlare con Capossela non è esattamente esercizio rilassante, lì a fare giravolte sui pensieri, sempre rigorosamente a voce bassa. Ora vorrei solo essere a letto a dormire, e non qui a guidare. A fari spenti come Elodie, solo con i vestiti addosso, o come Lucio Battisti. Citare però Mogol ora, dopo le polemiche per lo speciale per il venticinquennale della morte del cantautore di Poggio Bustone sarebbe fuorviante, e ho già sviato abbastanza di mio, quindi vada per Elodie, anche se io i fari li ho accesi. Figuriamoci, vengo dalla Svizzera, dove ogni due metri c’è un videowall che dice “segnalate il cambio di corsia” o “allacciate le cinture”, peraltro riconoscendo pubblicamente una idea di noi italiani non esattamente lusinghiera.
Viaggiare coi fari spenti da quella parte del confine mi avrebbe visto finire, immagino, in gattabuia. Chissà perché la gattabuia si chiama così. Sono andato a vedere, sembra derivi dal greco “katagheion”, sotterraneo, poi col tempo trasformato in catatoia fino a diventare infine gattabuia. Una distorsione piuttosto frequente, in italiano, si pensi al granoturco, che in realtà era grano per i Turkey, i tacchini, poi diventato grano che arriva dalla Turchia, così, a caso. Ecco, sto divagando troppo. Sono stanco davvero. E mentre guidavo nella notte, giuro, non ho pensato a Ballard, non ho pensato a Cortázar e neanche a Elodie, anche se presumibilmente pensare a Elodie mi avrebbe potuto un minimo svegliare. Proprio prima di partire per Lugano, peraltro, è uscito un mio pezzo che la difende nel sacrosanto diritto di mostrarsi seminuda nel video di A fari spenti. Sacrosanto diritto che è stato messo in dubbio da un sacco di utenti social, ovviamente specie donne, che l’hanno criticata duramente. L’ho difesa per tutti i discorsi che negli anni ho fatto sul femminile e il femminile in musica, e i corpi dentro e intorno alle canzoni, lungi da me tirarlo fuori qui e ora. Ma per questo motivo le ore precedenti alla mia partenza sono state piene di commenti al mio articolo, cui mi sono trovato mio malgrado a rispondere. Pensatemi a parlare di tette mentre preparo un incontro con Capossela, se ce la fate. Altro che Cortázar o John Barth, tette e culi e Elodie e Arisa e me che guido nella notte, ormai è l’una e mezza, unico momento felice di questo viaggio, altrimenti devastante: la mezzanotte. Ovvero quando mia figlia Lucia, seduta in terza fila (ho una monovolume a sette posti), ha fatto partire un applauso di auguri per i gemelli, seduti in seconda fila con la nonna: oggi compiono dodici anni. Per questo, in realtà, domani, che poi sarà comunque sempre oggi, le poche ore che passeremo a letto a trasformare questo oggi.
È l’una e mezza di notte, in domani, passeremo il pomeriggio al parco, per festeggiare Francesco coi suoi amici. Chiara la festeggeremo la settimana prossima. Sì, sono gemelli, ma giustamente pretendono un trattamento individuale. Un pomeriggio al parco con una ventina di preadolescenti scatenati, e io qui a guidare nella notte, ora so dove e so anche come arrivare da qui a casa. Giusto il tempo di pagare un altro pedaggio, tra la tangenziale Nord e quella Est. Maledetta Anas o chi per lei, poi sarà un gioco da ragazzi. Sono riuscito a fuggire dalla gattabuia dove l’Anas ha provato a rinchiudermi per qualche ora. L’ingresso a Milano non mi è mai parso così rassicurante come adesso, nessuno però lo dica a Sala, ché altrimenti si sente al tranquillo e lascia la città in balia dei maranza.