Dopo il 7 ottobre l’antisionismo è tornato con forza nelle piazze per ricordare tutti gli orrori di Israele e la conta di vittime civili palestinesi viene ormai aggiornata quasi giornalmente. Le immagini e i titoli dei giornali, nonostante le condanne al gruppo terroristico nascosto a Gaza, sembrano voler dare un’immagine muscolare di Israele, uno Stato che sta usando – secondo i critici – il pugno di ferro contro i palestinesi, fuori da ogni principio di proporzione. “Ma anche Israele è composto da cittadini impauriti, che sono chiusi in casa, che sono rimasti sconvolti. Israele non è una dittatura militare”. Sono le parole della dottoressa Letizia Bramante Schreiber, medico italo-israeliano, che da trentasei anni vive in Israele. Ex direttrice del reparto di anatomia patologica di uno degli ospedali di Tel Aviv, ricercatrice universitaria e tra le pochissime esperte di patologie placentari del Paese, vincitrice a ottobre del premio Riccardo Bramante, che purtroppo non ha potuto ricevere per via della sospensione dei voli verso l’Italia a causa dell’attacco di Hamas.
“Quello che ho fatto in tutta la mia vita è cercare di fare del bene”. Ed è per questo che giovedì 9 novembre, insieme a un gruppo di colleghi, ha organizzato una manifestazione per chiedere alla Croce Rossa Internazionale di informarsi sui duecento ostaggi israeliani che da quaranta giorni sono nelle mani di Hamas. “Non si sono interessati, nessuna richiesta, nessun cessate il fuoco. La manifestazione è stata fatta in un parcheggio tra dei palazzoni di Tel Aviv, lontani dal loro centro. Non abbiamo ancora capito perché. Quello che ci interessa è solo sapere come stanno dei cittadini israeliani. Come medici ci siamo interessati, ma non abbiamo avuto nessuna risposta”. A metà ottobre la richiesta era arrivata anche dal governo israeliano. “Anche Medici Senza Frontiere non si è fatta sentire per gli ostaggi, mentre continua a condannare solo Israele”. In queste ore si sta contrattando per alcuni ostaggi in cambio di un temporaneo cessate il fuoco, ma siamo lontani dalla liberazione di tutti i prigionieri. Si parla di massimo cinquanta persone che potrebbero essere liberate, ma ancora centoquarantanove donne, uomini e bambini restano in mano all’organizzazione terroristica, barricata a Gaza in una sorta di cittadella sotterranea. “Non sappiamo neanche se abbiano ossigeno, se siano ancora vivi. Non sappiamo nulla”.
La manifestazione non ha avuto alcun tipo di risonanza neanche in Italia: “Ho visto solo una foto durante un servizio di un tg italiano, ma era stata confusa con altre immagini di alcune manifestazioni, per altro contro Israele. Se non c’è stata manipolazione, sicuramente c’è stata confusione e hanno completamente cancellato il messaggio della nostra protesta”. L’appello alla Croce Rossa Internazionale è rimasto inascoltato per molto tempo, gettando un’ombra sulla “politicizzazione di alcuni gruppi di assistenza”. Solo il 14 novembre è stata data la notizia di una richiesta a Hamas da parte della Cri. A questo si aggiunge l’ambiguità di Amnesty International, che si rifiuta – per stessa ammissione del presidente di Amnesty France Jean-Claude Samouiller, di definire Hamas un gruppo terroristico, preferendo la dicitura “gruppo armato palestinese”. Secondo la dottoressa Schreiber è in corso una vera e propria mistificazione della realtà, volta a colpevolizzare Israele e a trattare i palestinesi solo come vittime, le uniche.
“Ad Al-Shifa ci sono i cecchini di Hamas che sparano ai civili palestinesi che provano a fuggire verso Sud. Il direttore di Al-Shifa è sostanzialmente un affiliato di Hamas e ormai da diciotto anni gli ospedali sono in mano loro”. Si è parlato di Al-Shifa in questi giorni per via dell’operazione di Israele, ma secondo la Schreiber anche questa notizia non è stata affrontata correttamente: “Le Idf sono entrate nell’ospedale insieme a medici e mediatori linguistici e hanno portato le incubatrici e il carburante per i generatori. Gli spari di cui si parla non sono nell’ospedale, ma fuori, tra soldati e miliziani. I rifornimenti e le cure sono state inviate da vari giorni, ma se ne parla solo a distanza di tempo, dando poca importanza alla notizia. Però vengono ripresi tutti gli annunci, anche da parte di Hamas, che possano ledere Israele”. La dottoressa Schreiber ha avuto molto rapporti con gli ospedali di Gaza in passato: “Parlo di una trentina di anni fa. Al tempo ci chiedevano consulenze e diagnosi più precise delle loro, anche per via della strumentazione che avevamo nei nostri centri. Quando Israele se ne è andato dalla Striscia nel 2005 i rapporti si sono completamente interrotti. Eravamo due diversi Paesi a se stanti”.
Questo non vuol dire che gli arabi non abbiano più avuto lavoro negli ospedali di Tel Aviv: “Abbiamo una fortissima componente arabo-israeliana o semplicemente araba. Da noi non abbiamo mai avuto difficoltà di questo genere. Pensi che l’80% dei farmacisti è arabo a Tel Aviv”. Tuttavia i rapporti ora sono più tesi: “Da parte nostra c’è imbarazzo, perché nei momenti di pausa è inevitabile parlare di quello che sta accadendo, ma non vorremmo mancare di rispetto a nessuno. Però c’è anche dell’ansia. Loro parlano arabo e noi non capiamo, spesso non sappiamo cosa si dicono. Una mia collega mi ha raccontato che una tecnica, a mensa, ha spostato le sue cose dal posto che aveva preso e ci si è seduta lei senza dire nulla. So che può sembrare un aneddoto irrisorio, ma chi conosce le dinamiche negli ospedali sa che, pur non essendoci nessuna gerarchia, esiste comunque una forma di rispetto dei ruoli che si traduce anche in un certo modo di comportarsi. E queste cose non succedono mai. Ora sì, forse si sentono più forti”.
Quaranta giorni sembrano sufficienti per scordarsi delle oltre mille morti israeliane e l’attenzione si è concentrata sulle vittime palestinesi, ma la paura non è prerogativa di una sola parte: “I chilometri per andare a lavoro sono gli stessi di sempre, ma ora hai il terrore delle sirene e siamo pietrificati. Nel mio condominio c’è una famiglia di israeliani che si è chiusa in casa per settimane. Il marito è andato a nord con l’esercito israeliano, per via delle tensioni con il Libano. Lei si è barricata in casa, ha chiuso le finestre, si è nascosta nella stanza di sicurezza con i suoi bambini. Ho parlato con lei per giorni prima di convincerla a uscire”. Il 7 ottobre non è stato un attacco qualunque e segna in qualche modo un confine tra un prima e un dopo: “Siamo rimasti sotto shock. Io vivo da trentasei anni in Israele e sei abituato sia al rumore delle bombe che a qualche tentativo di Hamas di attaccare. Ma questa volta abbiamo subito capito che era qualcosa di diverso. Ci siamo sentiti vulnerabili, avevamo paura potessero entrare nelle nostre case. Sono i racconti che di solito sentite dai palestinesi, nonostante Israele non abbia mai avuto intenzione di uccidere indiscriminatamente anche i civili. Ma adesso anche gli israeliani hanno una storia simile da raccontare”.