L’assistenza sanitaria in carcere è l’esatto contrario di quello che viene raccontato, e di come le leggi indicano debba essere. L’ordinamento penitenziario prevedrebbe una detenzione rieducativa, che tuteli ed operi per un reinserimento sociale. Le prigioni nella realtà sono un incubo, ad eccezione di chi, con soldi e potere, può scegliere destinazione e modalità della pena. Chiunque abbia a che fare con quel mondo, conosce la realtà, molto comune, del sovraffollamento in cella, con un bagno che è quasi sempre un buco per terra, senza porte, materassi alti due centimetri, coperte o quel che ne resta, di trent’anni fa, un televisore che, quando c’è, è grande quanto uno smartphone, ed una finestra come unica fonte di aria. Promiscuità, degrado strutturale, igiene pessima. Condizioni che, in un perizia medico legale, verrebbero definite “assolutamente incompatibili con la dignità della persona”. Il cittadino libero dovrebbe avere il diritto alla salute, ovvero ad essere curato. Dovrebbe perché, per il cittadino medio, già avere una diagnosi credibile ed essere più o meno curato in tempi non biblici, è un risultato. I cittadini reclusi, anche loro, dovrebbero avere gli stessi diritti che non potrebbero essere lasciati alla discrezionalità delle strutture di detenzione: proprio quello che invece, quasi sempre, succede. Il condannato, nella gran parte dei casi, non è un paziente da curare ma, ben che vada, è una persona da mantenere in vita. Le cartelle sanitarie sono ammassi di fogli, incomprensibili, senza cronologia e spesso, al momento opportuno, manomesse a proprio piacimento e tutela. Nella mia esperienza, è facile trovare riportati in cartella sanitaria colloqui medici mai avvenuti, sedute psicologiche mai realizzate, terapie mai somministrate, esami mai effettuati. Abnorme è l’ostracismo che chi accede dall’esterno per fini sanitari riscontra, anche da parte dei colleghi medici.

Il medico che entra in un istituto di pena per il proprio assistito, trascorre le prime ore a tradurre, intuire la verità oltre l’apparenza e cercare una logica alle pagine svolazzanti. I sanitari penitenziari sono pochi medici e tante figure parasanitarie. Nella loro convinzione, il detenuto mente e finge a prescindere, e quindi non è meritevole né di attenzione né di ascolto. La prevenzione in carcere è nulla. Al di la delle norme scritte, nella pratica il detenuto non ne ha diritto. Le statistiche raccontano poco. Il tasso di suicidi, che è quattro volte quello della popolazione libera, non è un solo una statistica, ma il sintomo terminale di un sistema che fallisce su tutta la linea. Ogni suicidio in carcere è un “evento sentinella”: dovrebbe scattare un allarme, un’inchiesta, un riesame delle condizioni. Invece resta un numero in un rapporto, archiviato con la stessa voluta freddezza di un referto di morte naturale. Le celle, dove quattro corpi occupano lo spazio progettato per uno, con deprivazione di luce solare, umidità cronica, promiscuità forzata, non sono solo dettagli architettonici: sono fattori di rischio documentati e riconosciuti per patologie, anche gravissime. Il carcere italiano è un laboratorio di patologie dimenticate quali tubercolosi, epatiti, AIDS. I disturbi psichiatrici sono trattati con psicofarmaci a pioggia, senza vere diagnosi, follow-up né psicoterapia. L’abuso di benzodiazepine è la regola assoluta e rappresenta il sedativo sociale che permette di gestire il caos con la chimica. In qualsiasi ospedale, una simile gestione determinerebbe licenziamenti, radiazioni dagli ordini, inchieste della magistratura, arresti. Non garantire standard minimi di salute, non è solo una questione etica: è un problema di responsabilità giuridica. Il paradosso è che fuori, in tribunale, ci si accanisce anche sul più piccolo dettaglio medico-legale per stabilire la responsabilità civile e/o penale di un imputato. Dentro, negli istituti penitenziari, gli stessi metri di giudizio e le stesse categorie giuridiche evaporano completamente. Le carceri italiane, non sono luoghi di espiazione ma sono reparti terminali di una società che ha scelto che chi sbaglia debba essere punito senza pietà e rispetto, dismettendone la cura, la prevenzione e la dignità, in favore dell’abbandono totale. Un sistema che ha scelto il degrado come normalità.
