C'era una volta il Matteo Salvini che, insieme a un gruppetto di deputati della Lega, nel 2020, organizzava un flash mob davanti all'ambasciata della Repubblica Popolare Cinese a Roma per “tutelare i diritti e le libertà contro le violenze, la repressione e le menzogne del regime comunista cinese”. Che chiedeva, urbi et orbi, una “nuova Norimberga” per accertare le responsabilità della Cina nella diffusione globale del coronavirus, che dubitava dell'ingresso italiano nella Via della Seta (nonostante, ai tempi dell'accordo, Salvini fosse uno dei due vicepremier e non si trovasse in esilio nella Guinea Equatoriale), che invocava il Golden Power contro le aziende cinesi ree di mettere a repentaglio la sicurezza dell'Italia. Oggi esiste un altro Salvini: quello che, in veste di vicepremier del governo Meloni, partecipa alla festa di Primavera organizzata dall'ambasciata cinese d'Italia a Villa Miani, nel cuore della capitale, che annuncia una missione in Cina e che esalta le infrastrutture del Dragone. Chi era abituato al leader della Lega in versione anti Pechino, diffidente contro tutto quello che poteva offrire la Cina, è rimasto sorpreso da quest'altro Matteo. Un Matteo che ha iniziato a partecipare con una certa costanza ai ricevimenti ufficiali della sede diplomatica del Dragone in Italia e che, almeno dalle apparenze, sembra aver cambiato radicalmente idea sul gigante asiatico.
Per quale ragione? Ci sono almeno due motivi. Il primo è semplicissimo: Matteo Salvini resta un leader populista. Significa quindi che il leader della Lega adotta uno stile camaleontico, nel senso che la sua agenda politica si adatta ai vari contesti nel tentativo di intercettare quanti più elettori possibile. Del resto, per un capo di partito passato dallo sbandierare l'indipendenza della Padania da Roma all'incarnare il sovranismo duro e puro a difesa dell'italica patria, che vorrà mai dire cambiare abito e indossare (finché servirà) le vesti del “filo cinese”, in una mossa presumibilmente giustificata con ragioni di pragmatismo e realpolitik? C'è però un altro motivo che spiega la metamorfosi salviniana. Basta dare un'occhiata alle tre teste che formano il governo italiano: la premier Giorgia Meloni è stata appena “benedetta” da Donald Trump, è riuscita a creare una forte sintonia con il presidente statunitense e, aspetto ancor più rilevante, gode di una discreta fiducia made in Usa; l'altro vicepremier, Antonio Tajani, mantiene un solido cordone ombelicale con Bruxelles, è uomo d'Europa, sa muoversi nei gangli dell'Unione europea e può portare in dote all'Italia garanzie made in EU. E Salvini? Ha ben poco da offrire in politica estera. Anzi: niente. Anche perché la stella dell'amica Marine Le Pen si è eclissata nottetempo, mentre gli altri friends populisti del leghista sparsi in giro per il continente hanno perso rilevanza, oppure, a loro volta, hanno cambiato pelle (vedi l'ungherese Viktor Orban, il conservatore più filo cinese tra i filo cinesi d'Europa).
Del Matteo Salvini che stava con Hong Kong, schifava la Via della Seta, respingeva Huawei e il 5G di Pechino, sospettava di ogni investimento cinese e via dicendo, di questo Salvini qui non è rimasta neppure l'ombra. Considerando che l'Italia è finita (ancor di più rispetto al passato) al centro di tre mega interessi contrapposti - quelli di Unione europea, Stati Uniti e Cina – i rappresentanti del nostro governo che possono vantare un rapporto privilegiato con Bruxelles, Washington e Pechino avranno un posto in prima fila da qui ai prossimi anni. In sostanza, tra Meloni, Tajani e Salvini, è proprio il leader leghista l'unico che potrebbe finire nell'irrilevanza. La Cina equivale quindi a una specie di salvagente per il Capitano, che spera così di poter salire sulle spalle del Dragone per guadagnare spazio, prestigio e potere. Chissà se in Cina qualcuno si ricorda di quando Salvini chiedeva all'Italia di “rialzare la testa” e di prendere le distanze dalla “Cina che contagia, massacra e aggredisce Paesi e ricchezze” (spoiler: se lo ricordano eccome). E chissà se Salvini riuscirà a creare una qualche sinergia infrastrutturale con Pechino. La sensazione è che la sua missione sarà molto, molto, molto difficile. In ogni caso, comunque andrà a finire, l'Italia rischia di finire schiacciata da interessi contrapposti, divergenti e per nulla conciliabili.