Ribaltando la battuta finale di “Tre sorelle”, leggendario dramma di Anton Čechov - “A Mosca, a Mosca…” – Pupo questa volta resterà invece a casa. Avrà comunque modo di esibire il suo talento musicale e umano altrove. “Non più a Mosca, non più a Mosca…”, così al fotofinish di una vicenda diventata problematica per lui, e forse per il nostro Paese stesso, minuto dopo minuto. No, non più a Mosca dove, sempre lui, Pupo, era atteso per partecipare a una sorta di Sanremo-Woodstock-Isola di White putiniani, evento programmato quasi a orologeria propagandistica contestualmente all’invasione criminale dell’Ucraina. Pupo già previsto nella scaletta ufficiale bordata da una filigrana d'oro quasi neo-zarista, Pupo “ospite d’onore”, implicito “ambasciatore” dell’Italia “amica”, immaginaria Nazione che voglia mantenersi a debita distanza dal dominio, di più, dall’“imperialismo yankee”. Resta che moscoviti e fan moscovite non avranno, almeno per il momento, modo sciogliere le proprie emozioni davanti al suo repertorio; Pupo infine assente improvviso agli stucchi imperiali del Cremlino, feticci da zar trascorsi e presenti.
“Su di noi”, hit pupiana per definizione, agli occhi degli ex cittadini sovietici, si sappia anche questo, assume, lassù, lo stesso sapore de “l’Internazionale”, così come questa veniva intonata coralmente al tempo del “politburo”.
Qui da noi invece, nell’odierno Stivale politico-spettacolare, il suo canto appare talvolta, agli occhi di molti, come il più accreditato “inno” dell’Italia al sapore di Meloni, colonna sonora che sembra accompagnare il sapore di successo del partito post-fascista di Fratelli d’Italia alle urne. Nonostante quest’ultima, Giorgia, “madre cristiana e italiana” abbia opportunamente scelto fedeltà sotto l'ombrello dell’Occidente, un qualcosa che lassù in Russia viene narrato come sorta di Sodoma del dominio LGBTQ+; la Nato indicata come suo braccio armato espansionistico.
Peccato per chi, cittadino russo, lo immaginava già sorridente, microfono in pugno sotto la strobosfera, pioggia di luce della ritrovata febbre del sabato sera al fuso orario di Mosca.
Pupo, anzi, Puposki, il mio amico Enzo Ghinazzi, unico vero garantito John Lennon di un tempo canoro e insieme politico che mostra appunto il centrodestra al governo.
Chi riteneva che Pupo fosse solo una meteora stagionale, tra i segnapunti metaforici della hit-parade degli anni ottanta musicali ha infine sbagliato valutazione, perduto la scommessa. Pupo-Puposki, al contrario, l’ha avuta vinta su tutto e tutti, anche su di me che, anni addietro, mi trovai personalmente a polemizzare con lui durante un collegamento che lo vedeva in diretta proprio da Mosca. Noi che, sebbene già “comunisti”, gli chiedevamo espressamente cosa cazzo stesse facendo accanto Vladimir Putin, satrapo, volto saponificato da (già) agente del Kgb.
Pupo infatti, storia non meno nota, come già Celentano al tempo di Kruscev, Breznev e ancora di Andropov e Cernenko, è da sempre, forse perfino dal momento del suo esordio, beniamino del pubblico post-sovietico. Si sappia infatti, tornando al presente, che nell’ex Cccp, forse mai completamente emendatasi dal regime dittatoriale che ha inizio con Lenin, vanno in visibilio per lui, ragazzo di Toscana, re di Ponticino, talento umano e artistico naturali, intelligenza prensile, creatura dalla generosità impagabile, Pupo figlio della terra un tempo etrusca, la stessa che passo dopo passo, traversie dopo traversie storiche, comunali e guerresche ha conosciuto perfino il dominio massonico di Licio Gelli. Pupo-Puposki, già invitto eroe del tavolo da gioco, da inevitabilmente, ineludibilmente citare accanto a Toto Cutugno e Al Bano, a loro volta presenti perfino nei jukebox degli Urali, nelle compilation del pentagramma della Grande Madre Russia.
Puposki, cosa nuovamente nota, presente nei titoli d’apertura d’ogni telegiornale e sito d’informazione, nei giorni scorsi eravamo certi non senza un senso di amarezza civile che sarebbe stato tra gli ospiti “d’onore”, sempre lassù al festival della canzone “patriottica”, sotto l’egida ufficiale del Cremlino. Laddove quel riferimento alla Patria, sempre lassù, fa risuonare la memoria della cosiddetta Grande Guerra Patriottica, posto che Stalin, mentre l’armata nazista di Hitler dilagava fino sotto Leningrado, si rivolse ai suoi chiamandoli “fratelli e sorelle”, accantonando quel “tovarish” che suggeriva invece i giorni della presa del Palazzo d’Inverno.
Pupo che inviando un messaggio vocale all’amico Roberto D’Agostino ha infine comunicato che non andrà a Mosca, non parteciperà più come giudice al Castrocaro russo. Le testuali sue parole consegnate a Dagospia: “È successo l’imprevedibile sulla mia partecipazione al festival ‘Road to Yalta’. In virtù di riflessioni e assorto nei miei pensieri nel viaggio che sto facendo verso il Belgio, ho deciso di non partire per Mosca. Il motivo? Non certo per le polemiche e per tutto ciò che è accaduto in questi giorni ma per un fatto che vi spiegherò più avanti. Sono molto chiaro con tutti...”
Pupo che nell’immaginario corrente sembra avere creato un proprio atlante nel quale Toscana e Russia hanno lo stesso confine. Già, nella psico-geografia da Puposki stesso creata, decisamente pupiana, ghinazziana, il Santuario francescano della Verna, Ponte Vecchio, Brunelleschi, i Medici tutti, Luca Della Robbia e ogni altra gemma del nostro Rinascimento sembra accostarsi ora al trascorso Mausoleo di Lenin ora alla Piazza Rossa.
Viva Puposki che si è donato infine la libertà di restare a casa. Viva Pupo, patriota infine di sé stesso. Onore a Pupo che lascia definitivamente a Salvini l’esclusiva della t-shirt griffata Vladimir Putin.