Il silenzio fa assai rumore. Solo negli ultimi giorni qualche voce, ipocrita e tardiva, ha messo a fuoco la questione dei diritti umani violati in Qatar. La Coppa del Mondo intanto parte. Stadi a cinque stelle, alberghi di lusso, tre milioni di biglietti già venduti per le partite, un giro d’affari complessivo da 17 miliardi di dollari, oltre sei miliardi di fatturato ipotizzato da Bloomberg per la Fifa. Di fronte a queste cifre, la soppressione delle libertà fondamentali è finita in seconda, anche terza fila. Arrivano guadagni per tutti. Per il Qatar, per la Fifa, per i main sponsor dell’evento. Cosa importa dei rischi per la comunità Lgbt? Chi andrà sugli spalti con la bandiera arcobaleno rischia fino a 11 anni di carcere.
Sulla difesa dei diritti civili in Qatar il calcio si è mostrato per quel che è: un passo indietro. Tranne che in campagne di sensibilizzazione finanziate da qualche sponsor (come avvenuto per esempio con Heineken in Champions League), nessun calciatore di peso si è mai voluto esporre in prima persona. Né Messi, né Ronaldo, né Neymar, o Mbappé. Nessuna voglia di farsi dei nemici, tutti attenti alla tutela della propria azienda personale, a controllare il registro di cassa, a contare i follower. In questo senso la Nba è assai lontana. Lebron James e le altre star del basket non fanno mai mancare la loro voce sul razzismo, sul libero esercizio del voto degli afroamericani, sul gender gap tra uomini e donne, nello sport e nella vita di tutti i giorni. Le condizioni di base sono ovviamente diverse, è anche una reazione alle discriminazioni storiche subite dalla comunità afroamericana.
I Mondiali sono stati assegnati al Qatar 12 anni fa. Joseph Blatter, l’ex potente numero uno della Fifa scelse di affidarsi a uno dei paesi emergenti sul Golfo Persico, alle riserve di petrodollari degli sceicchi. Si era a conoscenza dell’assenza di tutele per donne e comunità omosessuale. La Fifa poi ha fatto poco o nulla, il Qatar ha concesso solo una revisione dell’orario di lavoro sui cantieri di strade, porti e ferrovie, ma solo dopo aver contato migliaia di decessi tra i migranti (indiani, pakistani, nepalesi) al lavoro, documentati da inchieste del quotidiano britannico The Guardian.
Sulla scia di diverse denunce di associazioni come Amnesty International, negli ultimi mesi solo alcune tifoserie, soprattutto nel calcio tedesco (Bayern Monaco, Borussia Dortmund), si sono espresse pubblicamente per il boicottaggio della manifestazione a causa dei diritti violati e anche per lo spaventoso impatto ambientale della Coppa del Mondo in Qatar (annunciata come carbon neutral), tra desalinizzazione dei mari e uso indiscriminato dei voli-navetta.
Dei calciatori, nessuna traccia. O quasi. David Beckham, uno delle icone della generazione degli anni ‘90, ha pensato ad altro, per esempio all’incasso di un compenso da oltre 70 milioni di euro complessivi per il ruolo di ambasciatore della Coppa del Mondo qatariota. Uno dei protagonisti sul campo, anzi la stella più attesa, Leo Messi, ha silenziato il suo sprezzo per i Mondiali a Doha e dintorni accettando l’offerta dei cugini sauditi, sette milioni di euro annui per attirare turisti nel paese arabo.
Ha avuto il coraggio - fuori tempo massimo - il portoghese Bruno Fernandes di ammettere che i calciatori e tutto il carrozzone del pallone erano a conoscenza dei diritti civili violati sistematicamente in Qatar. Jurgen Klopp, allenatore del Liverpool, un paio di settimane fa ha denunciato i crimini commessi nel paese del Golfo Persico, contestando la scelta della Fifa, aggiungendo però che i calciatori sarebbero immuni da responsabilità. Chiamati solo a scendere in campo, una posizione difficilmente comprensibile.
Esiste infatti un sindacato calciatori (FifPro) che sa essere strumento assai potente. Quel sindacato di cui Diego Armando Maradona parlava agli inizi degli anni ‘90 con il giovanissimo Eric Cantona - il francese si è schierato da anni per il boicottaggio dei Mondiali qatarioti - per creare uno scudo contro i poteri del calcio, contro la Fifa di Joao Havelange, o contro l’Uefa. Il sindacato atleti è stato incisivo contro l’organizzazione dei Mondiali ogni due anni che la Fifa voleva a tutti i costi. In estate ha stilato pure una blacklist di sette paesi - inclusa l’Arabia Saudita, non il Qatar - in cui sarebbe impossibile andare a giocare, a causa dell’assenza di garanzie minime e tutele contrattuali. Lo stesso sindacato non ha praticamente toccato palla sui Mondiali in Qatar. Lo scorso anno, una delegazione FifPro si è recata in Qatar, segnalando alcuni miglioramenti e la necessità di progressi su questioni mai risolte: dalla mancata abolizione della kefala, il sistema di sponsorizzazione dei lavoratori migranti, in condizione di schiavitù, all’assenza dell’equo processo che è costato cinque anni di carcere per Adbullah Ibhais, ex collaboratore del settore marketing di Qatar 2022, colpevole di aver denunciato le disumane condizioni di lavoro sui cantieri. Infine, “le preoccupazioni” per la comunità Lgbtqia. Quei progressi non ci sono mai stati. E ora è troppo tardi. Si va in campo, per i diritti violati, ripassare in futuro.