Si è concluso ieri un vertice durato circa tre ore nell’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dedicato alla prosecuzione della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo quanto riferito da un funzionario israeliano al Jerusalem Post, l’orientamento del governo di Tel Aviv sarebbe quello di proseguire verso una piena occupazione della Striscia. Durante la riunione, il Capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane (IDF), tenente generale Eyal Zamir, ha illustrato le possibili opzioni militari per la fase successiva del conflitto. Pur essendo contrario alla totale occupazione di Gaza, Zamir ha chiarito che, se questa sarà la decisione del gabinetto di sicurezza, le forze armate israeliane sono pronte ad eseguire l’ordine. “Le IDF sono preparate a mettere in atto qualsiasi decisione venga presa dal gabinetto”, avrebbe dichiarato Netanyahu. Il primo ministro convocherà nei prossimi giorni una nuova, ampia riunione del gabinetto sulla situazione a Gaza e sul tema degli ostaggi ancora detenuti da Hamas. Sempre secondo fonti del Jerusalem Post, "Netanyahu sta valutando tutte le opzioni disponibili per i prossimi passi". Nel frattempo, in occasione di una visita alla base di reclutamento e selezione di Tel Ha Shomer, Netanyahu ha ribadito gli obiettivi strategici del governo: “È necessario completare la sconfitta del nemico a Gaza, liberare tutti i nostri ostaggi e garantire che la Striscia non rappresenti più una minaccia per Israele. Non rinunciamo a nessuno di questi obiettivi”. Il premier ha anche voluto sottolineare il crescente sostegno interno: “È il sesto ciclo di arruolamento dall’inizio del conflitto e il numero di nuovi soldati continua ad aumentare. Questo è un segnale potente dello spirito combattivo che ci anima e dell’unità del nostro popolo”. Quali potrebbero essere le conseguenze di una mossa simile? E che ruolo gioca l’America di Donald Trump? Ne abbiamo parlato con il noto esperto di geopolitica Andrea Gilli, docente di studi strategici presso l’università di St Andrews.

Dopo l'annuncio di Netanyahu, che ha espresso la volontà di occupare la Striscia di Gaza, cosa dobbiamo aspettarci?
La campagna militare a Gaza si è un po’ arenata, un po’ per una semplice questione di rendimenti decrescenti: distruggere Hamas, o il nucleo che rimane, è sempre più difficile. Un po’ perché ci sono ancora degli ostaggi, o i loro resti. E un po’ per via della pressione internazionale sul governo israeliano. Fare speculazioni sul piano militare è difficile, ma solitamente, molte guerre, a Gaza stessa, in Ucraina, e prima in Iraq e Afghanistan, vengono lanciate per durare poco, e poi finiscono per durare più del previsto. L’incognita, se così la vogliamo chiamare, riguarda le intenzioni del governo israeliano: punta a “liberare” Gaza, o a riconquistarla, togliendola così dal controllo palestinese, ritornando così alla sua situazione pre estate 2005?
Siamo davanti forse all'unica soluzione possibile? E, se sì, perché farlo dopo circa due anni dall'inizio del conflitto?
In guerra, come nella vita, raramente ci sono scelte obbligate. Si ha sempre un ventaglio di opzioni. Hamas è stata fortemente indebolita. La scelta del governo israeliano, qualunque essa sia, non è però solo militare, ma riflette realisticamente anche dinamiche domestiche, la tenuta del governo e delle sue varie anime, e le pressioni internazionali. Netanyahu, realisticamente, ritiene con questa mossa di poter ottenere ulteriori vantaggi, di consenso interno, a livello militare su Hamas, o forse di leverage internazionale. Ma non essendo nel suo cervello, e di chi gli sta accanto, è difficile valutare i suoi calcoli.
L’appoggio di Trump e dell'amministrazione americana sembra sia stato immediato: si riforma l'asse America Israele che abbiamo visto nel conflitto contro l’Iran?
Nei giorni passati, dai media internazionali traspariva una certa tensione tra gli Stati Uniti e Israele. Addirittura, dalla Casa Bianca e dal Pentagono emergevano voci di un’amministrazione frustrata da Netanyahu e dall’impossibilità di controllarlo. La posizione degli Stati Uniti andrà valutata anche perché all’interno di queste amministrazioni si trovano più voci e tra di loro discordanti. C’è un’anima molto pro-Israele, a cui appartiene tra gli altri l’ambasciatore americano a Gerusalemme. C’è un’anima isolazionista, per cui gli Stati Uniti dovrebbero sfilarsi dai problemi regionali in giro per il mondo. Di recente, è emersa anche un’anima antisraeliana o antiebraica (che possiamo chiamarla tranquillamente antisemita): quest’anima è più presente nel movimento MAGA che non nell’amministrazione, ma usando toni e temi discutibili cerca di far pressione sull’amministrazione per un cambio di rotta. L’esempio più lampante è la teoria per cui Epstein sarebbe stato una spia del Mossad, teoria senza fondamento e smentita da più parti.

In che modo oggi sarebbe possibile riconoscere lo stato della Palestina?
Onestamente, non mi è molto chiaro. Riconoscere la Palestina senza un vertice politico accettato e riconosciuto non credo possa portare a risultati concreti. L’ANP è debole, corrotta e screditata, e per una parte importante dei Palestinesi un’entità distante e quasi sconosciuta. Oltretutto, l’ANP è praticamente assente nella Striscia di Gaza. È un problema molto pratico, perché se c’è uno stato, bisognerà avere un presidente, un governo, dei rappresentanti: ma se questi non sono accettati o riconosciuti, la tragedia dei palestinesi non si fermerà.
Al di là dei proclami, per riconoscere uno stato ci sono una serie di criteri fondamentali. E non dimentichiamo che nella Striscia di Gaza c'è Hamas…
Ora nella striscia di Gaza, più che Hamas c’è una crisi umanitaria. In alcune parti c’è una guerra di insorgenza, in altre c’è anarchia. Gaza andrà ricostruita. La domanda è chi e come la ricostruirà. Tralasciando il piano di Trump, è realistico pensare che alcuni nel governo israeliano vogliano obbligare i palestinesi ad andarsene e la campagna militare servirebbe anche a questo scopo.
In che modo è possibile estirpare un'organizzazione terroristica come Hamas così ben radicata nel territorio? Netanyahu è o no riuscito a indebolire la loro potenza?
Storicamente, i movimenti di liberazione nazionale tendono a nascere come movimenti insurrezionalisti o terroristi. Ad un certo punto, però, si abbandonano le armi per governare. In Terra Santa, ciò non è mai del tutto successo. Le colpe non sono nè solo di Israele nè solo dei palestinesi. Tutti hanno responsabilità, inclusi gli attori circostanti ed esterni, quali i Paesi arabi e le nazioni unite. Fin quando la leadership palestinese vorrà continuare a combattere Israele, Israele impedirà la creazione di uno stato palestinese: non dico sia giusto, dico che è razionale. Fin quando i palestinesi non avranno una condizione migliore, continueranno a combattere: non dico sia giusto, dico che è razionale. Il conflitto in corso nasce a fine Ottocento e da allora non è mai stato risolto. L’unica previsione che mi sento di fare è che temo questo quadro non cambierà a breve termine.
Ha senso parlare di Genocidio?
È un tema complicato. Il genocidio non è un fatto, è un concetto. A seconda di come definiamo il concetto, una fattispecie empirica può quindi rientrare, o meno, nella definizione di genocidio. Non faccio il sofista, guardo il dibattito di oggi: i fatti sono gli stessi, la differenza tra le due parti dipende dalla concettualizzazione del termine. Più che fare metodologia delle scienze sociali sulla pelle dei palestinesi, io mi atterrei ai fatti. Israele ha commesso dei crimini di guerra? Realisticamente sì. Parte del governo israeliano vuole imporre enorme distruzione su Gaza così da spingere i palestinesi via dalla Striscia o, almeno, da una sua parte? Stando a quanto dicono alcuni membri del governo, direi di si. Un tempo, queste pratiche erano intrinseche dei conflitti. Dopo la Prima guerra mondiale, Grecia e Turchia fecero letteralmente spostare popolazioni appartenenti all’altra nazione dal proprio territorio a quello avversario. Oggi, questa pratica si chiama pulizia etnica. Il dato rilevante per me riguarda l’ordine internazionale. Piano piano sta cadendo ogni tassello di quanto è stato costruito dal 1945 ad oggi.