La colpa viene data al Covid. Fateci caso: da qualche tempo a questa parte, per qualsiasi cosa che non abbia senso, la colpa è sempre del Covid. Alibi comodo, termine insindacabile della discussione, scaricabarile perfetto perché fare stupidaggini è umano ma dare la colpa ad altri ancora di più. Ma non è e non può ricadere sul timore del contagio la responsabilità di avere allestito nella gravità di Montecitorio, in occasione di un evento liturgico quale l’elezione per il Presidente della Repubblica, una serie di parallelepipedi in lamina di plastica talmente dozzinali da apparire camerini presi in prestito dai tristissimi reparti uomo delle catene d’abbigliamento a basso costo. Cabine orribilmente squadrate e scelleratamente sproporzionate, rivestite di rosso poltronato e dal gusto raccapricciante, piazzate in mezzo senza alcun criterio prospettico. Qualcuno le ha pensate, le ha valutate belle, ha preso la decisione di preferirle ai catafalchi in legno, quelli che dal 1992 vengono montati storicamente tra le file dei banchi del governo in contesti del genere. Brutti sì - e altrimenti perché ribattezzarli catafalchi, termine nato in ambito funereo? - ma solenni, vagamente maestosi, ridondanti nella loro imponenza, misteriosi nel loro palesarsi con la necessità del voto segreto. Sensati.
Possibile che nessuno, laddove è più forte la retorica sulla bellezza che potrebbe e dovrebbe essere volano per far rinascere il Paese, abbia riflettuto sull’effetto? Che nessuno abbia pensato che sarebbe bastato davvero poco per renderlo, se non aulico, almeno armonioso? In politica la forma è sostanza. Roberto Grandi, massmediologo, già Pro Rettore per le relazioni internazionali presso l’Università di Bologna e co-direttore del Master in Digital Marketing and Communication presso Bologna Business School, non fa prigionieri: "Dove c’è sciatteria estetica c’è anche sciatteria culturale, politica, sociale. Quell’orrendo catafalco è l’immagine di una classe politica che vive in un mondo esteticamente squallido. Cosa costava domandare a Renzo Piano di fare uno schizzo di uno spazio funzionale ma anche bello?". Renzo Piano, per dire, è senatore a vita. Ce l’avevano lì. E invece.
La sciatteria è sempre una scelta, ma forse mai come in questo caso si rivela in tutta la sua coerenza. Rappresenta con filologica perfezione quello che è probabilmente il peggior Parlamento della storia repubblicana, capace di disperdere o annullare ben oltre duecento voti (più del 20%) al primo e al secondo scrutinio, più di cento al terzo, dove figure che si fregiano del titolo di onorevole o senatore - o comunque, per quanto concerne i delegati, di grande elettore - si divertono nello scrivere sulla scheda i nomi di Amadeus, Al Bano, Christian De Sica, Baglioni, Alfonso Signorini, Tardelli. Non che siano storicamente mancati i burloni, ma tra burloni e cialtroni c’è un fossato ampiamente superato, dove mostrare inadeguatezza per darsi di gomito e sghignazzare in Transatlantico, protetti dal segreto dello squallido camerino, è poi di fatto la trasposizione parlamentare della logica del branco: da una parte puoi fare schifo nascondendoti tra la folla, dall’altra da un anonimato garantito da ragioni costituzionali di una limpidezza che certi politici, semplicemente, non meritano. E quelle cabine elettorali così dozzinali non sono solo, a ben guardare, un insulto all’estetica. Sono un ritratto di famiglia.