Se dalle regionali in Sardegna è senza dubbio uscito vincitore il cosiddetto “campo largo” di centrosinistra, cioè l’accoppiata Pd-M5S, lo sconfitto più sconfitto, senza nemmeno poter consolarsi con l’onore delle armi, non è stato il centrodestra, dilaniato sì dal voto disgiunto, ma pur sempre arrivato a un soffio dal farcela. No, a rimediare la figuraccia è stato Renato Soru, l’imprenditore ed ex presidente di Regione presentatosi in solitaria, contro il Partito Democratico di Elly Schlein che gli aveva negato le primarie preferendo sostenere la grillina Alessandra Todde. La vincibilissima armata brancaleone di Soru era composta dal cosiddetto “Terzo polo” di Carlo Calenda (Azione) e Matteo Renzi (Italia Viva), oltre che da +Europa di Emma Bonino e da (sic) Rifondazione Comunista. Con l’8% e rotti di voti, non ha raggiunto la soglia del 10 per cento necessaria per entrare in consiglio regionale. Con onestà minima ma non scontata, già prima di sera, durante lo spoglio dei voti, Soru ha ammesso il fallimento. Gesto signorile a sigillo di una campagna elettorale che qualche spunto di riflessione, sul cosiddetto “centro”, lo dà.
Se nello specifico il partito di Renzi non si era formalmente impegnato nella corsa, limitandosi a fornire un’indicazione di voto favorevole a Soru, di fatto Calenda e Renzi hanno dovuto coabitare sotto lo stesso simbolo. I due hanno rotto da tempo, se ne sono dette di tutti i colori, l’espressione “mai più insieme” è risuonata tante di quelle volte che, come nei divorzi eccellenti, sono diventati una coppia scoppiata quasi da proverbio. Ma la loro relazione è quel che si dice essere separati in casa. Entrambi con percentuali da albumina, sicuramente sotto il 5% che è il limite di sbarramento alle imminenti europee, sono costretti dalla situazione a trovare il modo per stare assieme. Anche se solo elettoralmente. La “scusa” potrebbe darla +Europa, che, non si sa bene perché (data l’altrettanta esiguità di consensi), è corteggiatissima in vista del voto di giugno. Della serie: ci odiamo e detestiamo per ragioni personali più che politiche (dato che sulle idee, Renzi e Calenda sono sovrapponibili con la carta velina, consulenze saudite del primo a parte), ma la sacralità dell’Europa val bene un sacrificio, tanto più se a benedirlo è quella santa laica della Bonino. E quindi via all’ammucchiatina centrista, sperando di superare la fatidica soglia del 5% e raggranellare così qualche deputato a Bruxelles. Il primo punto, dunque, sarà banale rilevarlo, ma è l’assoluta inconsistenza degli amori e dei rancori in politica, la sua incoerenza costitutiva e ineliminabile, dal momento che l’imperativo è, e resta, quello: stare a galla, racimolando il racimolabile. Tuttavia, calcoli del genere hanno il respiro più o meno corto, se un soggetto piccolo anzi micro, come sono Italia Viva o Azione, non sceglie prima o poi di appoggiarsi a chi i voti li ha sul serio. Un giochino così poteva essere tentato in una realtà locale come quella sarda, illudendosi sul traino personale di un Soru. Ma sul piano nazionale, il carisma di Renzi e Calenda è tutt’al più buono per i talk show, dove può essere funzionale al bisogno continuo che hanno i Porro o i Parenzo di uscite sopra le righe (Renzi), o anche solo di un ospite pronto uso (Calenda). Nella società, sui territori, i partitini come i loro hanno una presa trascurabile, se non impercettibile. Possono magari contare su qualche finanziamento in più, dato l’orientamento ideologico scopertamente classista, elitario, da ala ultra-destra del Pd se alla segreteria del Pd non ci fosse oggi Elly Schlein. Ma dietro non hanno un popolo. Non hanno numeri. Al punto tale che in Sardegna non hanno nemmeno fatto troppo gli schizzinosi, quando ad aggiungersi al cartello Soru si sono offerti pure gli ultimi comunisti dichiarati in circolazione, i compagni di Rifonda.
La verità nuda e cruda è che Renzi e Calenda hanno una cosa in comune: non hanno più nulla da dire. Da dare, magari, sì: il primo, una certa abilità manovriera da professionista dell’intrigo, oltre che i rapporti coltivati all’estero (telefonare a un Mohammed Bin Salman, padrone di un’Arabia Saudita in pieno exploit di investimenti, non è da tutti, obbiettivamente); il secondo, neanche quella. Sono personaggi in perenne ricerca di collocazione per sopravvivere sulla scena. La differenza è che Renzi ha saputo modellare la propria carriera dandole una fisionomia imprenditoriale, Calenda invece pare crederci veramente, e infatti, bisogna riconoscerglielo, è l’unico politico non di destra che abbia, per esempio, sparato a palle incatenate contro quella potenza di fatto straniera che è la Stellantis di John Elkann. Se può valere come osservazione, è per questo divario caratteriale che il primo suscita una irredimibile antipatia, mentre il secondo, diciamolo, ha un suo pur mesto candore (che toccò l’apice quando, nel 2019, ammise che “per trent’anni” aveva ripetuto a macchinetta “tutte le cazzate del liberismo ideologico”, coazione a ripetere che lo ha traviato anche dopo; ma insomma, nessuno è perfetto). Il dato di fondo è che il mitologico “centro”, nell’Italia del 2024, è un triangolo della bermuda che inghiotte chi lo evoca. Un luogo da metafisica pura, che può scatenare le fantasie bizantine degli editorialisti fighetti e degli analisti squartacapelli, ma che nella realtà immanente è impalpabile, inafferrabile, non ben identificabile. Al massimo, può consistere in un resto, un residuo, ciò che rimane dalla spartizione dell’elettorato reale (oramai la metà del totale, con buona pace della democrazia “rappresentativa”: rappresentativa de che?) fra i poli di destra e di sinistra. Se grillini e Dem si alleeranno per davvero, cosa tutta da vedere di qui alle prossime politiche, e con un centrodestra più o meno unito, sempre che la Lega non opti per la rottura stile Papeete II, la premiata coppia di fatto Renzi-Calenda avrà tre strade davanti: o intrupparsi con Conte e la Schlein (se si sono fatti un giretto di valzer persino con Rifondazione Comunista…), o agganciarsi a Forza Italia (ipotesi tutt’altro che di facile attuazione: perché Tajani & C dovrebbero regalar poltrone?), o, non sia mai, provare il brivido di esonerarci della loro presenza nell’agone. Togliendosi uno, Renzi, la facciata del politico per brillare in tutto il suo sfolgorante cinismo da businessman. E tornando l’altro, Calenda, a fare quel che forse ha fatto meglio in vita sua: gli interessi dell’industria. Vorremmo scrivere del “Capitale”, ma mica siamo di Rifonda.