Brutte notizie per Danilo Coppola e i suoi cari. L’imprenditore era e dovrà rimanere in carcere a Viterbo, nonostante le condizioni fisiche precarie, in relazione alle quali erano stati chiesti i domiciliari in una struttura sanitaria. Il figlio Paolo ci ha scritto: “La Cassazione ha rigettato il nostro ricorso. Avevamo chiesto che mio padre, Danilo Coppola, potesse scontare la pena agli arresti domiciliari, in una clinica. Eppure, già prima di questa decisione, mio padre aveva ottenuto il riconoscimento della fungibilità di due anni di custodia cautelare, relativi a procedimenti da cui è stato assolto. Con quello scomputo, la sua pena residua è scesa a 2 anni e 3 mesi: ben al di sotto della soglia dei 4 anni prevista dalla legge per accedere alle misure alternative. Ma nemmeno questo è bastato. E c’è di più: da mesi esiste una perizia medica disposta dalla stessa magistratura, che attesta in modo chiaro la sua incompatibilità con il regime carcerario. Pena inferiore al limite. Incompatibilità fisica accertata. Eppure, mio padre è ancora in una cella. Ha 57 anni, pesa 50 chili. È debilitato, fragile, in sedia a rotelle. Ridotto a un’ombra della persona che era. E io mi domando, ogni giorno: qual è il senso di tutto questo? Che cosa stiamo aspettando? Questa situazione non è solo giuridicamente ingiustificabile. È umanamente insopportabile”.

I problemi di salute sono legati a una condizione di claustrofobia e alla conseguente difficoltà o impossibilità ad alimentarsi. Coppola, il cui nome ha cominciato a comparire nelle cronache giudiziarie all'epoca dei “furbetti del quartierino”, è stato ed è ancora a processo per numerose vicende finanziarie. In alcuni casi è stato assolto, in altri no, e altri sono ancora pendenti. Condannato nel 2022 a sette anni di carcere con l'accusa di bancarotta, è stato estradato dagli Emirati Arabi in Italia nell’agosto 2024 e portato nel carcere Mammagialla di Viterbo per scontare un residuo di pena di 6 anni, 5 mesi e 12 giorni della condanna definitiva per il fallimento di Gruppo Immobiliare 2004 e delle società Mib Prima e Porta Vittoria. “Chi non conosce la sua storia – argomenta il figlio – forse immagina chissà cosa. Ma la verità è semplice: mio padre è in carcere per reati societari. Nessuna violenza, nessuna evasione fiscale, nessun arricchimento personale. Non si è mai messo in tasca un euro dalle società. Anzi: quando lo Stato gli contestò centinaia di milioni di euro, pagò. Tutto. Versò 300 milioni al fisco, per contestazioni mosse mentre era già detenuto per una vicenda dalla quale poi, dopo due anni in stato di arresto, è stato assolto. Si trattava di partite doppie, triple, in alcuni casi contestazioni duplicate alla stessa società, in altri rapporti con interessi ai limiti dell’usura. Una volta tornato in libertà, luminari del diritto italiano – tra cui anche l’ex ministro Tremonti – gli consigliarono di impugnare quei contenziosi davanti alle commissioni tributarie. Ma lui, per amore di pace, scelse di pagare. Svendette tutto il patrimonio per liquidare velocemente. Non fu una resa. Fu una scelta consapevole: preferì pagare tutto, pur sapendo di avere ragione, per chiudere una volta per tutte, lasciarsi tutto alle spalle e cercare di ricominciare a vivere. Forse anche nella speranza che il rispetto per lo Stato fosse, un giorno, ricambiato. Ma oggi siamo qui, a pagare il prezzo di quella fiducia”.

Tutto cominciò nel 2005, quando Danilo Coppola arrivò a detenere il 5% di Mediobanca e fece la scalata a Bnl. Per il figlio Paolo, “fece qualcosa che in Italia pochi hanno osato fare: toccò i poteri forti. Si spinse in un territorio dove nessuno lo voleva. Da lì è iniziato un calvario lungo vent’anni: attacchi giudiziari, mediatici, tentativi assurdi di accostarlo alla Banda della Magliana. Smentiti, certo, ma la macchia è rimasta. Papà è sotto processo da vent’anni. Solo al trentesimo processo è arrivata una condanna. Oggi è gravemente malato, con una pena residua che gli consentirebbe di uscire, e perizie che lo dichiarano incompatibile con il carcere. Io non sto chiedendo pietà. Sto chiedendo legalità. Sto chiedendo che vengano applicate le leggi, e che si guardi ai fatti, non ai pregiudizi. E soprattutto, che si abbia il coraggio di interrompere un accanimento che non ha più alcuna giustificazione. Ci raccontiamo di vivere in uno Stato di diritto. Ma se tolleriamo che tutto questo accada, forse la distanza tra noi e i Paesi che giudichiamo arretrati è molto più sottile di quanto crediamo”.