“Nonostante le perizie mediche e tutti i precedenti che certificano la sua incompatibilità con la detenzione non vogliono concedergli i domiciliari. Ha perso 25 chili in pochissimi mesi, non mangia, vomita, non sta in piedi, è sempre attaccato alla flebo e stordito. Se qualcuno non interverrà ho paura che sarà presto troppo tardi”. A parlare è Paolo Coppola, il figlio di Danilo Coppola. Lo abbiamo intervistato solo poche settimane fa. Danilo è in prigione, deve scontare altri 5 anni, il residuo di pena per il fallimento di Gruppo Immobiliare 2004 e delle società Mib Prima e Porta Vittoria. “Al di là di quello che si può pensare sulle vicende processuali, qui c'è in gioco la vita di una persona, e la tutela della vita deve prevalere su tutto”, ci aveva detto Paolo. Da due anni l’ingegnere italiano Maurizio Cocco è detenuto in Costa D’Avorio. Le accuse sono di frode e riciclaggio, ma Cocco si è sempre dichiarato innocente. Le foto che stanno circolando certificano le condizioni dell’uomo, che avrebbe perso decine di chili nella prigione di Abidjan, dove è rinchiuso insieme ad altre 14mila persone. “Aspettano che muoia per analizzare le carte e capire che lui non doveva essere arrestato, non doveva essere tenuto in carcere e che sicuramente ora non può più rimanerci?”, ha detto la moglie Assunta. La donna ha versato 8mila euro a un legale che prometteva aiuto: niente da fare. Quando le accuse di narcotraffico sono cadute e la condanna a due anni per presunta frode fiscale risultava già scontata, è riemersa dal nulla una vecchia accusa di riciclaggio. Ora la libertà ha un prezzo: 300mila euro di cauzione. Una cifra impossibile per la famiglia. Assunta ha lanciato un appello: “Mio marito sta morendo, bisogna fare presto”. Mario Cicchetti è l’avvocato che da qualche giorno ha preso in mano il caso di Cocco: “Investirò tutti gli organi deputati del caso, sia in Costa d’Avorio che in Italia, per riportarlo nel nostro Paese al più presto”, le sue prime parole. Paolo Coppola, il figlio dell’immobiliarista, ci ha inviato un pensiero sulla vicenda, che riportiamo qui per intero.


Ho letto la storia di Maurizio Cocco, l’ingegnere italiano detenuto in Costa D’Avorio. Pelle, ossa e lividi. Un uomo devastato, una storia vergognosa che spero possa risolversi nel più breve tempo possibile. La sua storia mi ha colpito nel profondo, perché mi ha fatto paura rendermi conto che quello che sembra un incubo lontano, qualcosa che si crede possa accadere solo in paesi dove la giustizia è un miraggio, sta accadendo qui in Italia. Sta accadendo a mio padre. Lo stanno spegnendo, giorno dopo giorno. Lo stanno lasciando andare. Lo guardo e vedo un uomo che non riconosco più, con il tempo che sta per scadere. Mio padre, Danilo Coppola, non è un criminale. Non è un assassino, non è un mafioso. Papà è un perseguitato dalla giustizia italiana, vittima di un accanimento ormai ventennale, iniziato quando, all’apice della sua carriera, il suo nome fu infangato da un’accusa assurda: essere vicino alla Banda della Magliana. Un’accusa mai provata, totalmente infondata, che venne smentita solo dopo un anno. Ma nonostante ciò, l’ombra di quell’infamia restò, alimentando un clima ostile nei suoi confronti e aprendo la strada a una lunga serie di vicende giudiziarie che lo hanno travolto. Oggi è in carcere per una condanna arrivata dopo decenni di tentativi. È in carcere nonostante quattro perizie ufficiali del tribunale abbiano stabilito che non può restarci. E c’è di più. Tre di queste perizie sono arrivate in periodi in cui era in custodia cautelare per poi essere assolto. Assoluzioni su assoluzioni, per l’appunto, anche dopo lunghi periodi di custodia cautelare. E oggi, dopo vent’anni di processi, dopo vent’anni di tentativi, oggi, che è fragile, che è malato, che ha bisogno di cure, lo tengono dentro. Vi chiedete perché? Perché un uomo deve essere trattato così? Perché quando le perizie ufficiali degli esperti del tribunale dicono che deve essere curato, nessuno ascolta? Perché alcuni detenuti ottengono i domiciliari con facilità, mentre mio padre, anche se in condizioni critiche e senza aver mai fatto male a nessuno, deve morire in carcere? Basandosi su una visita del 17 dicembre, un Ctu del tribunale ha scritto nero su bianco che mio padre aveva urgente bisogno di un ricovero in una struttura sanitaria, ai domiciliari, e che in alcun modo le sue condizioni avrebbero potuto migliorare in carcere, evidenziando l’impossibilità di cure neppure negli ospedali detentivi a causa delle sue acclarate patologie. Questa era la situazione tre mesi fa. Oggi è ancora in carcere. Non ha più tempo. Aspettano che muoia per ammettere che aveva bisogno di cure? Di cos’altro hanno bisogno? Di un corpo senza vita per riconoscere che non poteva stare lì? Papà ha perso 25 chili, da novembre è costretto a stare sulla sedia a rotelle e ha i valori vitali bassissimi. Mi appello a chi ha il potere di intervenire: mio padre ha il diritto di essere curato in una struttura idonea. Le perizie parlano chiaro, il tempo sta per scadere. Chiedo che la legge venga applicata e che a mio padre siano garantite cure adeguate ai domiciliari in una struttura sanitaria, come stabilito dalla perizia ufficiale del tribunale. Voglio solo che la legge venga rispettata e i suoi diritti tutelati. Voglio che non si permetta che un uomo muoia così. Non chiedo attacchi alla magistratura. Chiedo solo umanità. Perché dopo vent’anni di battaglie, di persecuzioni, di assoluzioni su assoluzioni, oggi non si tratta più di questo. Oggi si tratta della vita di un uomo. E io non voglio che mio padre muoia così”.
