Los Angeles non basta più. I tumulti violenti scoppiati nella seconda città più grande degli Stati Uniti e cuore della ricca California si sono già allargati ad altri città americane, spingendo il presidente Donald Trump a minacciare un dispiegamento di militari a tappeto sul territorio federale. Sembra impossibile che le immagini da guerra civile che circolano in queste ore possano raccontarci gli Stati Uniti. Eppure, l’America di Trump oggi è proprio ciò che appare. Il caos, ormai lo sappiamo, è scoppiato attorno alla questione migratoria. Ma oggi, la partita sembra già essersi allargata, imponendoci riflessioni di medio e lungo periodo: siamo di fronte a un banco di prova per la tenuta interna degli Stati Uniti e per il loro ruolo globale. Con l’Insurrection Act sul tavolo, Guantanamo riattivato per i migranti e un uso militare estremo sul territorio nazionale, la democrazia americana sta arrivando ai limiti. Riuscirà a resistere o siamo già di fronte al collasso? E se gli Stati Uniti esplodono dall’interno, che ne sarà del mondo che hanno plasmato? Chi garantirà il debito globale? Da chi dipenderanno le infrastrutture digitali e finanziarie del mondo – e noi con esse? Quali spazi prenderanno potenze come Russia e Cina?

È iniziato tutto con una serie di retate dell’Ice, la polizia federale che controlla le frontiere, a Los Angeles. Quartieri interi, abitati in prevalenza da famiglie latinoamericane, sono stati setacciati con un’intensità che non si vedeva dal post 11 settembre. Le immagini parlano da sole: genitori ammanettati davanti ai figli, auto date alle fiamme dai manifestanti, minorenni detenuti senza mandato dalle forze dell'ordine, blindati in assetto da guerra parcheggiati davanti a scuole e chiese. Ma ciò che ha trasformato l’indignazione in scontro aperto è stata la risposta dell’amministrazione Trump: l’invio di centinaia di Marines e migliaia di unità della Guardia Nazionale sotto comando federale, senza che il governatore della California avesse chiesto nulla. Gavin Newsom, che molti considerano uno degli ultimi baluardi dei Democratici ancora con le ossa rotte dopo le ultime elezioni, ha parlato di “sequestro armato dello Stato” e ha annunciato di rispondere legalmente contro il presidente Trump. Intanto, le strade di Los Angeles hanno più l’aspetto di una città mediorientale consumata dalla guerra che di una grande metropoli occidentale. La situazione è precipitata in poche ore: coprifuoco, blackout informativi, repressione armata di manifestazioni civili, proiettili di gomma sparati scientemente contro giornalisti, come hanno dimostrato le immagini. La Casa Bianca ha ufficialmente evocato la possibilità di ricorrere all’Insurrection Act del 1807, una norma che consente al presidente di impiegare le forze armate sul territorio nazionale in caso di “insurrezione”. Un termine elastico e interpretabile, che in questo momento sta dando a Trump uno spazio d’azione senza precedenti.

Alcuni giuristi statunitensi da tempo discutono sui nodi normativi legati alla ridefinizione dell’equilibrio tra poteri federali e statali in corso. In particolare, giuristi di tutti gli orientamenti politici hanno sottolineato i limiti strutturali e dell’Insurrection Act. Nel 2024, una commissione guidata dall’American Law Institute – di cui fanno parte figure come Bob Bauer (ex consulente alla Casa Bianca sotto Obama) e Jack Goldsmith (ex Assistente sotto George W. Bush) – ha parlato di una “vaghezza normativa” che consentirebbe al presidente di “bypassare il governatore” o di agire senza motivazioni chiare. Anche su Lawfare, rispettata piattaforma di esperti costituzionali, si sottolinea un elemento fondamentale, tecnico ma cruciale: una volta invocato l’Act, “le autorità locali potrebbero disimpegnarsi del tutto, lasciando i militari senza strumenti adatti se non una dichiarazione di legge marziale”, e rischiano di “alienare autorità locali e aumentare le tensioni civili”. Quindi non si parla di politica partitica, ma di meccanismi istituzionali, di rapporti tra Stato federale e governi locali, e del rischio che l’uso abusivo dello strumento appena impugnato da Trump porti a una diluizione dei principi di federalismo e rule of law. D’altronde, ciò a cui stiamo assistendo è evidente: un solo uomo può decidere quando e dove usare la forza militare. Il coprifuoco imposto a Los Angeles ha già superato i dieci giorni, e prevede arresti senza cauzione per chi viola l’ordine. Si parla anche di riattivare Guantanamo come centro per migranti “pericolosi”, come previsto da un memorandum firmato nel gennaio scorso, dove si ipotizzava l’ampliamento del campo fino a 30.000 detenuti. La macchina esecutiva non si limita più a “far rispettare la legge”, ma costruisce una propria interpretazione del dissenso e lo gestisce come minaccia. Il professor Daniel Ziblatt di Harvard – ateneo in guerra aperta con Trump – ha avvertito che l’erosione democratica spesso non arriva con un colpo di Stato, ma con una lunga serie di forzature giuridiche legittimate da emergenze costruite. E se oggi la minaccia è il “caos migratorio”, domani potrebbe essere qualsiasi altra cosa: uno sciopero generale, una campagna elettorale non gradita, un’indagine giornalistica.

Ma se l’America implode al suo interno, cosa succede al mondo fuori? Il rischio non è solo simbolico: gli Stati Uniti non sono una potenza qualsiasi. Sono il principale emettitore di debito globale, con oltre 36 trilioni di dollari di debito federale – dati del Dipartimento del Tesoro statunitense – e un mercato obbligazionario che regge le fondamenta del sistema finanziario mondiale. Ogni crisi di fiducia nei confronti di Washington si riflette in instabilità nelle borse di Londra, Tokyo, Francoforte, per citare le più importanti. Il dollaro – che oggi rappresenta circa il 60 per cento delle riserve valutarie mondiali – potrebbe perdere il suo status di valuta rifugio se la credibilità istituzionale americana dovesse sgretolarsi. Inoltre, circa l’80 per cento delle transazioni globali di commercio passano per infrastrutture digitali statunitensi: cloud, server, servizi finanziari, protocolli di sicurezza informatica. E qui si apre una domanda cruciale: se il potere federale venisse meno, queste reti globali sarebbero in grado di reggere in autonomia? In apparenza sì: sono gestite da colossi privati – Amazon, Google, Microsoft, Visa, Stripe – che possiedono infrastrutture ben più solide di molti governi nazionali. Ma la verità è più complessa. È possibile che, nel vuoto lasciato dallo Stato, siano proprio queste aziende a rafforzarsi ulteriormente, assumendo un ruolo quasi para-istituzionale. Non sarebbe una novità: già oggi forniscono servizi essenziali alla sicurezza, alla comunicazione e alla finanza globale. Ma se domani dovessero anche gestire funzioni tipicamente sovrane – monitoraggio, arbitrato, protezione – cosa resterebbe dell’autonomia degli Stati più deboli? Non è fantapolitica, è geopolitica applicata. “Quando le istituzioni vacillano, il potere si sposta verso chi ha i mezzi per organizzare la complessità,” ha spiegato il politologo Moisés Naím. E in un mondo dove i grandi Stati arretrano, non è detto che a colmare il vuoto siano altri Stati: potrebbero farlo le piattaforme. Il rischio? Che il sistema globale, invece di diventare multipolare, diventi multi-corporate, con una manciata di aziende americane più forti di qualunque alleanza internazionale.

C'è poi la questione geopolitica. Chi controlla gli eventuali spazi lasciati vuoti dagli Stati Uniti? Parliamo di Europa, certo, ma anche di Sudamerica, Medioriente e Pacifico in primis. La Russia potrebbe intensificare la pressione su Ucraina e paesi baltici, mentre la Cina troverebbe carta bianca per rivendicare Taiwan e consolidare la propria influenza su tutto il Pacifico. Con il venire meno del principale attore militare e geopolitico sul tavolo globale, molte controversie congelate potrebbero surriscaldarsi o assumere pieghe inaspettate. Come ha notato Ian Bremmer, fondatore dell’Eurasia Group, “gli equilibri internazionali si mantengono non solo con le armi, ma con la previsione. Se gli Usa diventano imprevedibili, nessuno sa più chi seguire o temere.” Persino l’Europa, da decenni aggrappata all’ombrello Nato rischia un cortocircuito: senza il supporto americano, ci si troverebbe costretti a negoziare sicurezza e energia direttamente con Mosca e Pechino. Il risultato? Una dipendenza strategica da potenze autoritarie, con tutte le conseguenze che ciò potrebbe comportare anche in termini di valori, diritti civili e libertà individuali. In una realtà come quella dell’Unione europea, in cui l’unità monetaria e i lenti e complicati tentativi di integrazione politica si accompagnano spesso ad una narrazione simbolica, che insiste sui valori democratici, avvicinarsi ad autocrati come Vladimir Putin o Xi Jinping equivarrebbe rendere manifesta la propria contraddizione. Sarebbe la fine definitiva di ogni progetto europeo?
Quello che stiamo vedendo a Los Angeles va oltre le immagini. Oltre la violenza di strada, i saccheggi e i disordini di chi manifesta, la paralisi delle città e la repressione della polizia. È l’occasione per vedere fino a che punto il governo della più grande democrazia al mondo – seppur in declino – sia disposta a forzare i propri meccanismi per ristabilire l’ordine, o meglio, ciò che definisce tale. Se lo spartito seguito da Trump in queste fasi sortirà un effetto ritenuto accettabile, nulla ci dice che queste modalità non potranno essere replicate. Ma se questo succederà, modificando il Dna della democrazia statunitense, è possibile che ci siano conseguenze: per gli Stati Uniti, innanzitutto, per i suoi alleati, per il sistema internazionale. In gioco non c’è solo l’ordine interno americano, ma l’ordine mondiale così come lo conosciamo. La domanda vera non è se ci sarà una guerra civile, ma quanto ci vorrà prima che il caos interno degli Usa ridisegni tutto il resto del mondo. Saremo pronti a tutto ciò?