Graz, Stiria, 10 giugno 2025. Una mattina che avrebbe dovuto essere ordinaria, con il brusio delle aule e il ritmo quieto di una città austriaca, si è trasformata in un incubo. Un ex studente di 22 anni, armato di pistola e fucile da caccia, ha fatto irruzione nel Bundesoberstufenrealgymnasium (Borg) di Graz, aprendo il fuoco in due aule, una delle quali lo aveva visto crescere. Almeno dieci vittime tra studenti e insegnati. Tra i morti anche l’aggressore stesso, che si è tolto la vita in un bagno dell’istituto. Ventotto feriti, alcuni in condizioni gravissime; molti sono stati colpiti alla testa. Il movente, secondo i media locali, affonda nel disagio causato dal bullismo che l’autore del massacro avrebbe subito in passato. Un sentimento che lo ha spinto a un gesto di estrema violenza. L’indagine è in corso e la polizia non esclude la presenza di un complice. In tutto questo Graz, la seconda città d’Austria, si ritrova a piangere i suoi figli in una giornata che il cancelliere Christian Stocker ha definito “una tragedia che scuote l’intero Paese”. Questa la cronaca, ma c’è di più oltre i numeri, i bollettini di polizia, le condoglianze ufficiali – da Giorgia Meloni a Kaja Kallas – che, pur sentite, si piegano al rituale delle parole di circostanza. Credevamo che scenari del genere potessero appartenere solo all’America, terra in cui le armi sono parte del concetto di libertà. Ma da quando, ci chiediamo, il Vecchio Continente ha iniziato a somigliare a un’America ferita, dove la violenza irrompe nei luoghi che dovrebbero essere santuari di crescita e sicurezza? Non è solo la facilità con cui un ragazzo di 22 anni ha potuto procurarsi legalmente due armi – una pistola e un fucile da caccia – a inquietare, sebbene questo dettaglio riapra il dibattito sul controllo delle armi in un Paese dove episodi del genere sono rari. È il contesto, il malessere, il disagio che si annida nelle pieghe di una società che si vuole ordinata, civile, avanzata. L’aggressore, secondo il Krone Zeitung, si considerava vittima di bullismo. Un’etichetta che, da sola, non spiega né giustifica, ma ci impone di guardare lì dove la nostra società appare più debole. È la deriva di un’individualità esasperata, dove il dolore personale si trasforma in un grido armato? È la ricerca di una redenzione che si trasforma in annientamento.

La strage del Borg richiama alla mente non solo le tragedie americane, ma anche episodi recenti in Europa, come la sparatoria di Örebro in Svezia, lo scorso febbraio, che ha provocato undici morti. L’Europa non è l’America, ma ha già conosciuto orrori simili, benché più rari. L’Erfurt del 2002, con 16 morti per mano di un ex alunno, o il Jokela del 2007 in Finlandia, con otto vittime, sono ferite ancora aperte nella memoria collettiva. Ma ogni nuovo sparo riaccende un interrogativo scomodo: stiamo assistendo a una deriva che ci avvicina agli Stati Uniti, dove la violenza armata è un morbo endemico? O è forse la lente mediatica a ingigantire un fenomeno che, pur devastante, resta episodico? L’Europa, che si è a lungo crogiolata nella propria superiorità morale, deve ora confrontarsi con un’ombra che si allunga oltre l’Atlantico. E se il cancelliere Stocker parla di “solidarietà e compassione” come forza più potente, le sue parole, pur nobili, non possono cancellare la domanda che ci lacera: come siamo arrivati qui? È forse il prezzo di un’epoca che ha smarrito il senso della collettività, che ha lasciato i suoi giovani in balia di un vuoto che si riempie di rabbia e armi? La scuola di Graz, evacuata e messa in sicurezza, è ora un simbolo. Non solo di lutto, ma di un’urgenza: quella di guardare negli occhi il nostro presente, di interrogare le istituzioni, le famiglie, le scuole stesse. Ogni bambino, come ha scritto Kaja Kallas, dovrebbe sentirsi al sicuro a scuola. Ma la sicurezza non è solo assenza di armi: è presenza di ascolto, di cura, di comunità. Graz ci costringe a chiederci se siamo ancora capaci di costruirla, questa comunità, o se, senza accorgercene, ci siamo già arresi a un destino che credevamo lontano. Graz non è solo cronaca, ma un monito. Ci costringe a guardare negli occhi le fragilità dei giovani, l’accesso troppo facile alle armi, i silenzi della salute mentale. L’Europa non è l’America, eppure questo sangue versato ci ricorda che la violenza non ha frontiere e la follia non chiede permesso. Mentre le sirene si spengono e le vittime vengono piante, resta una domanda sospesa: come fermare l’eco di un altro sparo? La risposta non è nei discorsi dei potenti, ma in un’azione che ancora non sappiamo immaginare.
