Chico Forti sta per tornare in Italia, ma sempre da carcerato. Il trasferimento è certamente un'ottima notizia, in quanto implica un ricongiungimento famigliare che sembrava insperato, dopo anni di tentativi non riusciti. Tuttavia, è ancora presto per parlare di libertà: se, in qualche modo, si sarebbe potuta dimostrare la sua innocenza, perchè non si è mai scelto di proseguire su quella strada? Lo abbiamo chiesto a Roberta Bruzzone, la criminologa ed esperta di psicologia forense che ha seguito, in qualità di consulente, Chico Forti nei primi anni della sua detenzione, quando il caso non interessava quasi a nessuno. Abbiamo cercato di capire se il trasferimento sia davvero un successo, a chi vada attribuito davvero il merito, e perché ci sia una fetta d criminologi e opinionisti che non crede all'innocenza di Chico Forti.
In merito alla vicenda Chico Forti, in questo giorno si è parlato molto di merito del trasferimento in Italia, quasi una gara per accaparrarsi il titolo di “chi ha riportato Chico Forti in Italia”, ma a chi dobbiamo davvero questo successo?
Allora, guardi, il merito del trasferimento è sicuramente di natura politica, quindi è qualcosa che è in piedi da almeno tre anni. Probabilmente lei ricorderà che Luigi Di Maio annunciò questo imminente trasferimento oltre tre anni fa ora sono, quindi c’era già un lavoro diplomatico in piedi da diversi anni. Se ne occupò all’epoca direttamente il ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata: parlare di merito diventa un po’ complicato. Io, sicuramente, mi prendo un pezzo di questo successo perché, al di là di tutta una serie di considerazioni, l’unico report ufficiale sul caso, stilato come consulente tecnico della vicenda, è mio, che all’epoca consegnammo insieme all’ex magistrato Imposimato, che poi è venuto a mancare, al Ministero degli Esteri, e da lì chiaramente questo report rimane l’unico documento ufficiale che spiegava tutta una serie di criticità relative al caso. Il report fu pubblicato da me, poi, in forma più narrativa, nel libro “Il Grande Abbaglio”, uscito nel 2013. Io, dal 2009 al 2016 sono stata consulente di Chico Forti e della sua famiglia, e arrivammo a produrre questa documentazione, la quale venne poi tradotta e utilizzata per tutta una serie di valutazioni. Non nascondo che, personalmente, puntavo alla revisione del caso. A mio avviso, c’erano tutti gli elementi per cercare di riaprirlo in America, facendo sì che Forti tornasse in Italia da uomo libero, ma quando poi è subentrato l’avvocato Joe Tacopina non ho più trovato le condizioni per poter collaborare. Allora, ho preferito fare un passo indietro, perché non ritenevo che la sua linea fosse condivisibile da parte mia. Così, nel 2016, durante un evento pubblico, ho annunciato in maniera abbastanza netta di volermi tirare indietro, esprimendo chiaramente la mia opinione sul modo di procedere di Tacopina, che di fatto non condividevo. Quindi io, da lì, sono uscita formalmente dal caso, in quanto consulente, ma rimane il fatto che gran parte del lavoro tecnico relativo alla vicenda sia stato svolto principalmente da me. Dopodichè è subentrato l’interesse da parte di diversi governi, che si sono avvicendati nel corso degli anni. La vicenda è stata trattata anche da diversi programmi, come Le Iene, ampliando di fatto il pubblico che si è interessato al caso. Io ho cominciato a occuparmene nel 2009 quando, lo assicuro, di Chico Forti si parlava poco, e male (ride). In questo senso, credo di poterlo dire documentalmente che una parte fondamentale del lavoro sia stata svolta da me: sono stata due volte in carcere da lui, in Florida, nel corso degli anni, proprio per stilare questo report tecnico, quindi mi fa certamente piacere che sia finalmente avvenuto il suo rientro. Anche se, bisogna dirlo, avrei preferito che il suo ritorno in Italia fosse stato in qualità di uomo libero.
Certo, per rientrare da uomo libero, ci sarebbe stato bisogno di fare quello che lei aveva in mente: la revisione del processo.
Sì, adesso non è più possibile. Le condizioni per il trasferimento presuppongono chiaramente la rinuncia a qualsivoglia ulteriore iniziativa in sede giudiziaria. Tecnicamente, il processo non potrà mai più essere riaperto.
Come mai, secondo lei, Tacopina ha scelto questa linea, di non puntare sulla riapertura del processo?
Non ne ho la più pallida idea. Per anni ci ha tenuti in qualche modo col fiato sospeso, mi passi il termine. Io, peraltro, in questo evento del 2016 di cui parlavo prima, tenutosi a Riva del Garda, ho manifestato pubblicamente il mio dissenso. L’evento l’ho registrato, so perfettamente quello che è avvenuto, e lo conservo così, a futura memoria. Non si sa mai, nella vita. Io, in quell’occasione, dissi chiaro e tondo che non credevo assolutamente che lui avrebbe mai proposto la revisione del processo. Eravamo nel 2016: in quell’occasione Tacopina si impegnò a presentarla entro la fine dell’anno corrente. Di anni ne sono passati otto, e quella revisione, come avevo ampiamente anticipato, non è mai arrivata. Il perché e il percome, andrebbero chiesti a lui. All’epoca era assolutamente convinto di presentarla in tempi rapidi; da quel giorno, ribadisco, sono passati più di otto anni. Io ai tempi espressi chiaramente le mie perplessità sulla linea di Tacopina, ed ero convinta che lui non avrebbe mai fatto domanda di revisione. Purtroppo, i fatti mi hanno dato ragione.
Joe Tacopina, in questi giorni, ha parlato di “sistema corrotto”, come se fosse un’ipotesi di rassegnazione al sistema, contro il quale non si sarebbe mai potuto fare nulla.
In realtà, la strada per la revisione c’era. Sicuramente sarebbe stata una strada difficile da percorrere, su questo siamo d’accordo, però c’era. A me non risulta che sia mai stata tentata, poi questo sarebbe da chiedere a lui, direttamente, se ci sia mai stato un documento teso a una richiesta concreta di revisione. Le uniche cose che ha prodotto Tacopina, e ripeto, ce le ho in mano, quindi posso portarle tranquillamente all’attenzione pubblica senza alcuna remora, sono di fatto una traduzione, peraltro abbastanza sintetica, del lavoro che ho fatto io. Non c’era nient’altro, di nuovo, rispetto a quello che, fortunatamente, avevo già pubblicato prima del suo ingresso nella storia.
Tornando sul parlar poco, e male: la linea criminologica che insiste sulla colpevolezza di Forti, che lo descrive come assassino e bugiardo, a quali argomenti si attacca? Dov’è l’errore?
Fondamentalmente, chi definisce Forti un bugiardo si attacca per primo a una prima bugia, in quanto non esistono prove di natura materiale di alcun genere. Lui era certamente altrove quando Dan Pike veniva assassinato, quindi le prove circostanziali non ci sono, non esistono. La famosa sabbia trovata in macchina, in maniera del tutto assurda, è identica alla sabbia di tutte le spiagge che Forti frequentava, se non altro in virtù del fatto che era un appassionato di windsurf. Era una situazione, quindi, del tutto priva di riscontri giudiziari. La problematica fu una. Quando Chico Forti venne interrogato la prima volta, peraltro andò di sua spontanea volontà, consigliato da un soggetto che poi, negli anni, si è rivelato molto ambiguo, decisamente oscuro, l’agente Gary Schiaffo, che all’epoca era in forza alla polizia di Miami, il quale fu poi anche processato e condannato per un’altra serie di reati. Schiaffo aveva incontrato Forti per il documentario sull’omicidio di Gianni Versace, su Andy Cunanan, suggerì a Forti di andare al dipartimento per dire tutto ciò che sapeva al riguardo. Poi, una volta al dipartimento - questo è tutto provato documentalmente, tutto ciò che sto dicendo - quando Forti venne interrogato, la polizia gli disse che anche Tony Pike, il padre di Dan, era stato trovato morto a New York nelle stesse condizioni del figlio, cosa che poi si era dimostrata falsa. I poliziotti possono mentire, se ritengono di creare uno scenario di pressione. Lui, a quella menzogna, credette, perché? Muore Dan Pike, a Miami, e lui si trova lì. Muore Tony Pike, circostanza non vera, mentre lui è a New York: chiaramente, Forti è andato in panico, e ha fatto la più grossa stupidaggine della sua vita, ovvero mentire, negando di aver incontrato Dan Pike all’aeroporto. Fondamentalmente, l’unico elemento su cui si è basato il processo è proprio questa prima bugia, detta per immaturità. Poi, qui in Italia c’è parecchia gente che chiacchiera sul caso. Per alcuni di loro, non si comprende nemmeno bene perché adesso si debbano occupare di un caso di cui prima non conoscevano nemmeno l’esistenza, e nemmeno nessuno ha chiesto loro un parere sulla vicenda. Al di là di questo, nessuna di queste persone che parlano ha avuto accesso agli atti, a differenza mia. Quindi, gran parte delle informazioni che essi riferiscono, sono in qualche modo il frutto di ricostruzioni che, a voler essere generosi, si possono definire come fantasiose.
Qualcuno, in queste ricostruzioni, cita di fatto il suo libro, con l’intenzione di ribaltarne la tesi.
Probabilmente, non l’hanno letto bene. Suggerirei una rilettura.
Viene anche l’idea che si tratti di visibilità.
Il meccanismo è abbastanza chiaro. Io, ormai, sono tanti anni che faccio questo lavoro, ai massimi livelli, tra l’altro. Per dire, oggi sto andando da Pierina Paganelli perché ho un incarico anche lì. Domani sono ad Altavilla Milicia per l’accesso alla scena del crimine e per la perizia su Barreca. Come si vede, ho tantissima visibilità, e tantissimi casi. C’è gente che non ha avuto altrettanta fortuna professionale, mi passi il termine, probabilmente per tutta una serie di fattori, non ultima anche la mancanza di capacità per potercela avere, la fortuna. Questa gente però, nutre anche ambizioni, sotto questo profilo, e attaccare i miei casi vuol dire attaccare me, quindi sperare in una mia risposta per poter rosicchiare qualche briciolina di visibilità. Io, il giochino lo conosco molto bene, quindi li lascio tranquillamente nella loro convinzione; anzi, per certi versi mi rassicura il fatto che le persone la pensino diversamente da me. È una sorta di rassicurazione sulla bontà del mio operato, per cui va anche bene così, però ripeto, se dobbiamo parlare del caso seriamente io mi siedo a un tavolo in cui c’è un interlocutore credibile e affidabile. A mio modo di vedere, questi soggetti non lo sono.
Lei tempo fa disse che, dato il trasferimento, l’unica via possibile alla libertà di Chico Forti sarebbe la grazia da parte del Presidente Mattarella.
Fondamentalmente, nel nostro ordinamento, l’unica strada percorribile è quella. Forti è stato condannato a un ergastolo "without parole", simile all'ergastolo ostativo previsto dalla legislazione italiana, un tipo di condanna per la quale, a dirla facile, non esci mai. Quindi, il trattato per il trasferimento che è stato firmato presuppone che la condanna venga omologata qui, nel nostro ordinamento, adattando la sentenza in modo che sia coerente al corrispondente italiano, che è per l'appunto l'ergastolo ostativo. Il carcere a vita, insomma. A queste condizioni, l'unica via che rimane aperta per uscire da lì, tecnicamente, è quella della grazia concessa dal Presidente della Repubblica. Poi Mattarella farà tutte le valutazioni del caso, come è giusto che sia, con la massima serenità e con la massima autonomia. Da parte nostra, riteniamo che quest’uomo se la meriti, perché al di là di alcuni errori di valutazione, fatti probabilmente per immaturità, per paura, perché ha ricevuto consigli sbagliati e, al netto di tutta una serie di scelte che ha fatto strada facendo, io sono assolutamente certa che sia estraneo ai fatti, e che quindi meriti di vivere, almeno la sua ultima parte di vita, a piede libero. Forti ha fatto degli errori dovuti magari a una personalità che all’epoca non ancora solida e strutturata, ma ha pagato un prezzo altissimo, ha perso tutto: famiglia, lavoro, posizione, libertà e dignità personale. Il suo debito con la giustizia lo ha ampiamente pagato, e questo per un omicidio che non ha commesso. Tecnicamente, non c'è niente che lo collochi sulla scena. Questa è l’unica cosa che do per certa. Anche la questione del movente è inesistente. C’è la questione della famosa truffa, ma in realtà è stato Forti a essere truffato, e lo abbiamo provato documentalmente. Tony Pike, il padre della vittima, unitamente a un soggetto veramente inquietante, pluricondannato per truffe aggravate, Thomas Knott, sono due personaggi che erano veramente dediti ad attività criminali, e anche questo è tutto ampiamente documentato, e peraltro ammesso dallo stesso Pike durante un interrogatorio a Londra, in cui disse chiaramente che stava vendendo a Forti il cosiddetto Elefante Bianco, l’hotel di Ibiza, la cui compravendita fece ritornare a Miami la vittima. Una truffa colossale.
Tutto questo, peraltro, rientrava nel suo report ufficiale, poi confluito nel libro “Il grande abbaglio”.
Ho cercato di fare bene un’attività che è stata complessa perché c’era una mole di atti impressionante. In questo è stato fondamentale Roberto Fodde, che è stato in qualche modo la figura di riferimento a Miami, che ha tenuto i contatti con Chico e che è stato determinante nella produzione della documentazione. Ma se parliamo di meriti, lasciatemi dire, ci sono due persone che ce l’hanno sopra chiunque altro, e sono lo zio di Forti, Gianni, e la moglie Wilma. Gianni Forti e sua moglie sono stati davvero eccezionali, e dietro alla vita di Chico in qualche modo hanno speso la loro. Se parliamo di meriti, allora cominciamo da lì. Senza Gianni Forti, e senza Wilma, tutto il resto non avrebbe avuto luogo, e credo che sia giusto che non ce lo dimentichiamo. Poi, dalle leonesse di Chico al resto del battage mediatico, tra fasi calanti e di attenzione, sono in tanti i personaggi che possono dire di avere contribuito. Ma il merito, se dobbiamo attribuirlo, non può che andare allo zio Gianni e a sua moglie Wilma.