Aurelio Picca racconta Roma come pochi altri. Lo hanno definito un Henry Miller italiano, un cantore spietato, un autore lucido. Lo abbiamo intervistato per parlarci di Roma, delle sue periferie, della criminalità, poco dopo che un pugile è stato accoltellato a morte ad Anzio (e che suo padre è stato arrestato per un successivo tentato omicidio) e mentre un ragazzo veniva trovato sgozzato in strada ad Artena, il paese dei fratelli Bianchi, quelli in galera per l’omicidio di Willy Monteiro. E Picca sta lavorando proprio a un film per la Rai che si intitola “Preghiera per Willy”.
Allora Picca, qual è la situazione attuale nelle periferie di Roma?
Guardi, sto girando con i miei collaboratori a Paliano e un’ora fa abbiamo saputo che ad Artena è stato accoltellato e ucciso un ragazzo. Questa è la situazione nell’hinterland (che poi non è una parola molto adeguata, meglio parlare di “grande provincia”) sud-est di Roma.
La Ferragni ha parlato di un’esplosione della criminalità a Milano. Vale lo stesso per Roma?
Noi siamo già in un’esplosione psichica di fatto. Il minimo dell’antica educazione un tempo ancora teneva. Era come il canapo del Palio di Siena. Adesso che il canapo non c’è più i cavalli partono da soli. Anche Milano – l’unica vera città italiana – c’è questo problema, ma forse è stata sempre più organizzata di Roma. Roma sono diversi anni, per usare un eufemismo, che versa in queste condizioni invece. Ma non bisogna sparare su Roma (o su Milano). Il problema è italiano. Bisogna agire, attivarsi con proposte il prima possibile.
Nello specifico delle zone romane, crede che ci sia di mezzo anche il fascismo, una certa memoria del Ventennio, o altro?
Basta con questo fascismo. L’Italia è stata tutta fascista. Le persone della grande provincia romana erano lavoratori, contadini. Ha presente gli scalpellini di Tivoli? Lo sa che il Getty Center Museum è fatto interamente di travertini di Tivoli? Il fascismo non c’entra niente. Come diceva Pier Paolo Pasolini, il fascismo è stato l’ultimo momento in cui l’Italia si è sentita una grande potenza mondiale. Ma il fascismo è stato battuto e non c’entra nulla. Siamo in una situazione di grandissima emergenza. Ovviamente la provincia, che fino a trent’anni fa era più protetta, perché c’erano botteghe e artigiani, adesso, per via della droga, si è scomposta e frastagliata. Ed è per questo che stiamo girando in questi territori, che erano poi quelli di Marco Antonio Colonna, uno dei grandi vincitori a Lepanto, per dire.
La criminalità romana ha una sua peculiarità, legata anche alla storia della città?
Ormai sanno tutti che la criminalità a Roma non ha mai avuto un padrone. Ha avuto tanta gente che ha fatto i commerci, ma parliamo di palazzinari, rapinatori a mano armata degli anni Sessanta, spacciatori, non c’è mai stata un’unica testa. Io continuo a ripetere che Roma non doveva essere la capitale d’Italia. Roma è città aperta. La città giusta sarebbe Firenze, la grande bellezza ma concentrata. Non è come Roma, che poi è già la capitale di Pietro. Lo scriveva Dostoevskij: prima di diventare unita Roma aveva realizzato il grande progetto dell’impero romano e poi quello del papa. Roma è già capitale universale. Anche perché Roma è una metropoli spezzata, non puoi renderla una semplice città. Avrebbero fatto meglio a lasciare una realtà con spazi riconoscibili, distribuita sui sette colli. Invece l’hanno sovraccaricata quando è evidente che Roma non è attrezzata per reggere l’urto, sia delle grandi costruzioni, sia di quella esplosione psichica e sociale di cui abbiamo parlato.