Che l’Italia non sia un Paese per giovani lo sanno bene i circa 2 milioni di connazionali under 35 scappati all’estero per far vita meno grama. Nell’artrosi generale, la vecchia guardia geriatrica presidia le casematte del potere con le unghie e con i denti. I media, per esempio. Autentico specchio, in questo caso non deformante, di quel Pio Albergo Trivulzio che è la scala sociale, non più mobile da un pezzo.
Prendiamo, ad esempio, il neo-acquisto da parte della famiglia Angelucci de Il Giornale, ultimo scampolo cartaceo dell’impero berlusconiano. Il proprietario, Paolo Berlusconi fratello di Silvio, ha rintuzzato Nicola Porro, editorialista di punta del quotidiano, che in un tweet dava già l’affare per concluso: ci vorrà qualche mese, ha puntualizzato. Senza smentire, tuttavia. E chi andrebbe mai al timone, sostituendo l’attuale direttore Augusto Minzolini? Stando alle voci, Alessandro Sallusti, oggi alla guida di Libero. Il quale Sallusti, ricordiamolo, ha già diretto la storica testata fondata da Indro Montanelli per la bazzecola di 11 anni filati, dal 2009 al 2021. Al posto suo, a Libero sarebbe ri-promosso l’attuale condirettore, Pietro Senaldi, già direttore dal 2016 al 2021.
Il lettore si faccia una ragione di questa tediosa girandola di ritorni e staffette: l’usato sicuro è la regola aurea dei piani alti. Nello specifico, un po’ lo si può anche capire: un imprenditore alla prese con conti in rosso come quelli che funestano il Giornale (8 milioni di euro di buco due anni fa, forse di più adesso, con le copie totali scese a 32 mila, meno 10% in un anno) ha necessità immediata di raddrizzare la barca, e perciò anche l’urgente bisogno di un capitano di provata esperienza. Sallusti, titolista da elettrochoc e stile da panzerdivision, è quel che ci vuole per rianimare un’antica e compassata ammiraglia, e siccome gli Angelucci ce l’hanno a portata di mano, che Sallusti sia, fine dei discorsi.
Resterebbe da capire come si farà a differenziare un Giornale sallustizzato con un Libero che comunque viaggia ancora più basso, a 23 mila copie (il Tempo, altra proprietà della famiglia, non arriva a 8 mila). Sarà ingenuo chiederselo, ma a parte far pacchetto in termini pubblicitari e cercare di tamponare l'emorragia di lettori, che senso ha affiancare due organi di informazione i quali, al di là delle diversissime genealogie, ragionerebbero di fatto con la stessa testa, battendo all’unisono lo stesso spartito, uno il doppione dell’altro? Se Sallusti, infatti, è un po’ il figlioccio di Vittorio Feltri (a quanto se ne sa, non proprio animato da trasporto paterno, ultimamente, per una serie di scelte non condivise su firme a lui care relegate ai margini), Senaldi lo è di Sallusti. Pare la catena di Sant’Antonio, o il gioco delle tre tavolette. Anzi, nemmeno tre: due.
Già: sempre gli stessi nomi, a ripetizione, all’infinito, finchè morte non ci separi. Ma proprio non è possibile che, direbbe il dannunziano officiante Giordano Bruno Guerri, non si faccia mai, mai, mai largo ai giovani? Cos’ha che non va non diciamo un trentenne, ma quanto meno un quarantenne: non è sufficientemente aduso a scaltrezze ed equilibrismi politici più che giornalistici? Non è abbastanza cinico per passar sopra come un paracarro su conflitti d’interesse, condanne (il padre di Giampaolo Angelucci, Antonio, parlamentare ora leghista e prima forzista, ne ha una in primo grado per falso e tentata truffa sui contributi pubblici fra 2006 e 2007 proprio per Libero, oltre che per Il Riformista), e soprattutto sull’arte da matusalemme di alimentare artificialmente una carta stampata in progressivo auto-affondamento? Ha la colpa di non avere le rughe in fronte e magari pure nel cervello? Non ha ancora dimestichezza con salotti, salottini, terrazze eccellenti e retrobottega fetenti?
Non che non prolifichino i giovani vecchi, intendiamoci, copie conformi dei più anziani modelli di inschiodabilità a vita. Ma per lo meno, come, per dire, con Giorgia Meloni che pare nuova e invece di nuovo ha solo la facciata, avremmo un minimo turn over nelle facce. Se poi anche le nuove leve dovessero rimanere sulle fattezze notoriamente rotonde e retroposizionate, che facevano dire a Totò “quel viso non mi è nuovo”, beh, questo fa parte dell’umana natura. Siamo pur sempre tutti uomini, costretti a sorbirci sempre gli stessi caporali.