Volodymyr Zelensky si aspettava qualcosa di diverso. Il presidente ucraino era volato a Washington per incontrare Donald Trump e incassare, presumibilmente, nuovi aiuti militari in cambio dell'accettazione di un equo piano di ricostruzione dell'Ucraina e di un'equa proposta sulle Terre Rare da cedere ai protettori americani per il sostegno fornito negli ultimi tre anni. Qualcosa è andato storto. Zelensky era nervoso, rigido, quasi congelato nella sua felpa militare. Era circondato da giornalisti, braccato da J.D Vance, e in qualche modo è stato costretto a recitare la parte che non avrebbe mai voluto recitare: quella del leader che non vuole la pace e che intende continuare a combattere fino all'ultimo uomo. Gli sono saltati i nervi, sono saltati anche a Trump-Vance e il resto è storia nota. Il deal non s'ha da fare e allora, forse, le trattative tra russi e statunitensi andranno avanti senza Kiev. E senza l'Europa, relegata in secondo piano e grande assente anche nella vicenda di Gaza. Ma siamo davvero sicuri che i grandi vincitori delle due crisi che preoccupano l'Occidente, ovvero la guerra in Ucraina e quella tra Israele e Hamas nella richiamata Striscia di Gaza, alla fine saranno gli Stati Uniti di Trump nel primo caso e Tel Aviv nel secondo? Tutti parlano dei negoziati tra Washington e Mosca; dello sca**o quasi cinematografico verificatosi alla Casa Bianca tra The Donald e Zelensky; delle Terre Rare che tanto interessano Trump (e che potrebbero coinvolgere anche Putin); dei territori conquistati dal Cremlino; del citato Zelensky che alla fine non è stato ucciso e ha tenuto testa a un avversario infinitamente più forte (ma che è comunque stato demolito in diretta mondiale dal presidente americano); di Benjamin Netanyahu che avrebbe silenziato sia Hamas che Hezbollah. Tutti, insomma, sottintendono che saranno loro, chi in un senso, chi nell'altro - chi gustandosi il classico bicchiere mezzo pieno e chi accontentandosi della parte vuota - a raccogliere i dividendi dei conflitti ucraini e israelo-palestinesi. Ma, alziamo di nuovo la mano, è davvero così? Non proprio, se andiamo oltre la narrazione mainstream. Certo, Trump e Putin, in caso di accordo sul dossier ucraino, si “spartiranno” Kiev, mentre a Zelensky toccherà accettare il fatto compiuto (e pure la figura barbina/colpo basso rimediato nell'ultima trasferta negli Usa). Ed è vero che, una volta che Hamas avrà liberato tutti gli ostaggi, Israele sbandiererà al mondo intero la vittoria contro i “terroristi” (e, chissà, forse inizierà a fare pressioni su Libano e Iran). È però altrettanto vero che tutte quelle vittorie elencate rischiano di essere “vittorie di Pirro” se paragonate a quelle che potrebbero ottenere altri attori...
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Quali sono gli altri attori? Il primo fra tutti è l'Arabia Saudita. Il principe Mohammed bin Salman si è offerto come mediatore, ha messo a disposizione Riyad come sede per avviare i negoziati Usa-Russia e, soprattutto, vanta ottimi rapporti sia con Trump che con Putin (e anche con la Cina di Xi Jinping). Ma perché i sauditi dovrebbero interessarsi al conflitto ucraino? Semplice: l'Ucraina è stata in parte distrutta, e Riad vuole inserirsi nel grande business della ricostruzione post-bellica. Bin Salman si è anche impegnato per mediare il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Il motivo? L'Arabia Saudita aspira a essere un attore centrale nella geopolitica del Medio Oriente e intende presentarsi come una potenza in grado di influenzare gli eventi regionali. Ha dunque bisogno di stabilità per far prosperare i propri affari, attirare investimenti e realizzare la Vision 2030, la strategia di riforma e sviluppo economico lanciata dal Paese nel 2016 con l'obiettivo di diversificare l'economia e ridurre la dipendenza dal petrolio. Un altro attore da tenere in considerazione è la Cina. Il leader cinese Xi Jinping è un “partner senza limiti” di Putin e, insieme, i due Paesi hanno rafforzato la cooperazione in molteplici ambiti. Non solo: Pechino si sta presentando, in primis sul fronte ucraino, come il Paese che ha evitato che le due crisi regionali potessero degenerare in crisi globali. Il Dragone è pronto, insieme all'Arabia Saudita, a tuffarsi nella ricostruzione ucraina e a potenziare i legami con l'intero Medio Oriente (dall'Iran a Israele, fino alle monarchie del Golfo). Poi...
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Poi arriviamo alla Turchia, il cui leader, Recep Tayyip Erdogan, ha progetti chiarissimi da perseguire. Uno su tutti: trasformare Ankara da potenza regionale a potenza internazionale tout court (e anche, ma questa è una conseguenza, vendicarsi dell'Unione Europea che, nel corso degli anni, aveva più volte promesso ai turchi l'ingresso nell'Ue, salvo poi fare muro). Per riuscirci, Erdogan sta puntando su un approccio multilaterale e, infatti, la Turchia si è spesa per far avvicinare Putin a Zelensky, così come si è schierata a favore della causa palestinese (anche attaccando duramente Israele) sul fronte mediorientale. Ricordiamo che Ankara sta espandendo la propria influenza in Europa orientale (l'Ucraina servirà, in parte, per accelerare la silenziosa ascesa?) e in Africa, dove il soft power delle serie televisive turche si fa spazio tra gli investimenti cinesi e i mercenari russi. Ripetiamo la domanda: siamo sicuri che i veri vincitori della crisi ucraina e israelo-palestinese saranno gli Usa di Donald Trump? Quasi sicuramente no. Anche perché, mentre tra quattro anni – a meno di colpi di stato o cataclismi – Putin, Erdogan e Xi (o comunque i loro successori) continueranno a essere saldamente al potere, lo stesso non potrà dirsi di Trump. Che, comunque, sta lavorando per non essere superato dalla storia. Chissà che Elon Musk non possa dargli una mano decisiva...
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