Cinque agenti sotto copertura, mobilitati in diverse città italiane, sono stati scoperti mentre si fingevano militanti di Potere al Popolo, il movimento politico che sogna la rivoluzione ma fa numeri da sagra della porchetta. L’obiettivo? Capire cosa si muovesse nei sotterranei della sinistra antagonista. Il risultato? Una montagna di assemblee, volantini e occupazioni universitarie. Più che un rischio eversivo, una gita nel folclore post-marxista italiano. L’inchiesta, firmata Fanpage, ha sollevato il coperchio su una vicenda che sembra partorita da una commedia grottesca. Gli agenti, tutti legati all’antiterrorismo, si sono inseriti nelle sedi locali del partito da Napoli a Torino, partecipando alle attività come attivisti modello: riunioni infinite, striscioni dipinti male e cortei con i soliti slogan da Centro sociale Anni ‘90. Il caso più grottesco riguarda un 21enne sotto copertura, trasferito da poco alla polizia di prevenzione, che si è presentato come studente universitario fuorisede a Napoli. Ha frequentato le attività del collettivo per mesi, fino a farsi beccare - non grazie a un controspionaggio sofisticato, ma per banalissimi incroci tra social, selfie e incongruenze nei documenti. Non fosse grave sarebbe terribilmente buffo. Potere al Popolo, ovviamente, ha colto la palla al balzo: grida alla repressione politica, richieste di indagini parlamentari, e comunicati indignati pieni di parole come “Stato di polizia”, “libertà costituzionali” e “resistenza”. E per una volta, bisogna ammetterlo, anche se come al solito si sono dimostrati dei piagnoni, qualche ragione ce l’hanno davvero.
Che lo si dica o no, Potere al Popolo non fa davvero paura a nessuno. Non lo temono i mercati, non lo temono gli apparati, e neppure la gran parte della sinistra moderata. I suoi toni apocalittici, l’estetica fuori tempo massimo e l’ossessione per Palestina, Nato e "popoli oppressi" non spaventano: semmai, stancano. Allora, perché infiltrarli?
Ipotesi 1: La burocrazia della paranoia
È possibile che qualcuno, da qualche scrivania ben pagata, abbia deciso che bisogna sorvegliare tutto ciò che si definisce “antagonista”, indipendentemente da quanto conti. Una logica kafkiana: se gridano contro il sistema, meglio starci sopra. Che poi gridino da un seminterrato con venti sedie scompagnate, è irrilevante.
Ipotesi 2: Timori di radicalizzazione
La narrativa interna potrebbe essere stata: “attenzione alle degenerazioni violente”. Ma i fatti dicono il contrario. Le iniziative di PaP sono visibili, pubbliche e al limite dell’autocaricatura. È difficile vedere in questo movimentismo stanco un reale pericolo. L’unica cosa esplosiva, finora, sono le retoriche.
Ipotesi 3: Bersaglio facile per fare curriculum
Un’altra ipotesi cinica ma non peregrina: PaP è un bersaglio facile, privo di peso istituzionale e senza l'appoggio mediatico per difendersi. Infiltrarlo è facile, rischi pochi e qualche “rapporto di servizio” in più sul tavolo. Se poi scoppia il caso, pazienza: tanto erano comunisti.
Insomma, infiltrare un partito extraparlamentare, iper-ideologizzato e mediaticamente irrilevante, e farsi pure scoprire, è un’operazione che sfiora il surreale. Si voleva forse controllare? Contenere? Delegittimare? Alla fine, si è ottenuto l’effetto opposto: PaP è passato da marginale a martire, da “quelli che attaccano la Nato” a “quelli spiati dallo Stato”. Il tutto senza uno straccio di reato, né una reale giustificazione politica. Solo l’impressione, inquietante e tragicomica, che qualcuno nei palazzi della sicurezza non riesca più a distinguere tra dissenso, folklore e pericolo reale. E mentre Potere al Popolo brinda all’autogol, resta una domanda sospesa nell’aria: ma davvero lo Stato italiano ha così paura di quattro slogan scritti a pennarello?
